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All’armi, siam europeisti!

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La Commissione Europea, nella persona della sua presidente Ursula Von der Leyen, ha presentato martedì 4 marzo il ReArm Europe Plan. Anche se i dettagli del piano saranno presentati soltanto entro il prossimo Consiglio Europeo del 20 e 21 marzo, i suoi pilastri sono già ben chiari ed è necessario commentarli.

Cosa prevede il piano ReArm Europe

  • Una deroga al patto di stabilità per le spese militari fino all’1,5% del PIL

Quel patto che vincola gli stati europei all’austerità da circa 30 anni e per il quale sono state fatte pochissime deroghe (la più rilevante è stata la sua sospensione nel 2020, causa pandemia), sarebbe ora pronto ad essere accantonato in nome delle spese militari. Se tutti i paesi membri dovessero usufruire della deroga aumentando il proprio indebitamento, si arriverebbe in 4 anni ad incrementare di 650 miliardi le spese per la difesa. Sul come spendere tali risorse non ci sono vincoli e ogni paese è libero di scegliere come vuole: può acquistare, produrre e/o progettare i sistemi d’arma che preferisce.

  • Un nuovo strumento simile allo SURE

Lo SURE (State sUpported shoRt-timE work) è un fondo europeo istituito nel 2020 dalla Commissione e che prevede prestiti a condizioni favorevoli per quegli Stati membri che decidano di impiegare risorse per tutelare l’occupazione a rischio. Questo nuovo strumento avrebbe una dotazione massima di 150 miliardi da destinare ai paesi membri che ne facessero richiesta e da investire sempre in difesa. Si tratterebbe, cioè, di debito formalmente emesso dalla Commissione Europea, quindi con un ottimo rating. I paesi più indebitati, come l’Italia, facendone richiesta potrebbero risparmiare sugli interessi che potrebbero invece ottenere con i propri titoli di stato. Però c’è una limitazione: l’impiego di questi 150 miliardi è vincolato a progetti consortili tra i paesi membri che puntino “all’interoperabilità dei sistemi”.

  • Possibilità per i paesi che lo desiderano di utilizzare i fondi di coesione per le spese militari

Von der Leyen ha esplicitamente detto che verranno previsti “possibilità e incentivi per gli Stati membri, che decideranno se vogliono utilizzare i programmi di politica di coesione per aumentare la spesa per la difesa”. Ciò sarebbe esplicitamente una riallocazione di fondi prelevati con scopi sociali e dirottati su spese di guerra: nell’ipocrisia delle borghesie europee, infatti, “la politica di coesione ha lo scopo di incrementare le opportunità di sviluppo economico e sociale per contribuire a ridurre i divari e le disparità tra territori e regioni europee, agendo in particolare nelle aree meno sviluppate e per le comunità e le persone più fragili”.

  • Creazione di nuovi canali finanziari per alimentare le spese di guerra

Si tratta di attivare la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) per sostenere i finanziamenti alla difesa, nonché di accelerare nell’integrazione dei mercati finanziari europei, con la trasformazione dell’Unione dei Mercati dei Capitali (CMU, Capital Markets Union) in Unione dei Risparmi e degli Investimenti (Savings and Investments Union), per aumentare gli investimenti dei privati nell’industria bellica.

Qual è il loro piano?

Da un punto di vista di politica internazionale, si conferma ancora una volta che l’Unione Europea è una mera somma di interessi e compromessi nazionali, un insieme di Stati in competizione tra loro in cui i più forti cercano di trarre vantaggio dalla propria condizione. Con il ReArm Europe Plan ogni paese può fare quel che vuole, decidere in autonomia se aumentare o meno il proprio debito e decidere come spendere i soldi che ne deriverebbero.

Il dato, insieme tecnico e politico, è infatti che l’industria militare europea è estremamente frammentata, così come le forze armate dell’Unione: giusto per dare un’idea, al momento i paesi membri mantengono 178 diversi sistemi d’arma a fronte dei 30 degli USA, 12 sistemi terrestri a fronte di uno solo degli USA. Con il piano di Ursula Von Der Leyen, molto semplicemente, ognuno investirà sui propri sistemi d’arma foraggiando la propria industria bellica. Molti poi hanno progetti in comune con industrie statunitensi e probabilmente spenderanno buona parte dei soldi presi a debito in armi “made in USA” per compiacere l’amministrazione Trump. Per i paesi più deboli, poi, si prevede la possibilità di indebitarsi ancora di più ma a condizione di portar soldi alle industrie dei paesi europei più forti che possono metter su progetti destinati all’interoperabilità (difesa aerea e missilistica, droni, ecc.) che necessitano di investimenti maggiori (si veda il maxipiano da 500 miliardi in 10 anni proposto dal Cancelliere tedesco in pectore, Merz).

Un secondo punto da sottolineare è che l’uso dei fondi di coesione per le spese militari, in Italia, è stato subito criticato sia da Schlein sia da Meloni. Tale contestazione ha trovato la propria origine nella particolare situazione italiana. Più di altri paesi l’Italia usufruisce di questi fondi e da un loro utilizzo alternativo avrebbe tutto da perdere. A ciò dobbiamo però aggiungere che si tratta di un mutamento radicale delle finalità per cui verrebbero impiegati. Si va, infatti, ad usare fondi pubblici, raccolti in teoria per obiettivi di miglioramento sociale, per un’attività – la guerra – che di certo non ha a che fare neanche con quel poco di supporto sociale che il fondo di supporto europeo voleva promuovere. Tale cambiamento di destinazione avverrebbe inoltre senza passaggi parlamentari, visto che la presidente della Commissione Europea ha annunciato di essere pronta ad aggirare il voto europarlamentare, dato che l’articolo 122 dei trattati europei le consente di portare un testo al Consiglio Europeo senza prima una discussione in aula. Questo sottrae volontariamente una decisione fondamentale alle più semplici logiche della democrazia rappresentativa, perché la classe politica europea e i gruppi sociali che essa rappresenta sono consapevoli che i singoli governi faticherebbero non poco a giustificare davanti alle loro popolazioni un aumento della spesa militare.

Un comportamento del genere non ha però nulla di nuovo, in un contesto di stati imperialisti. Come faceva già notare Hobson nel suo saggio sull’imperialismo (1902) ripreso poi da Lenin nel suo saggio popolare sul tema (1917), i governi usano le spese di guerra per far ripartire l’accumulazione capitalistica, cioè i profitti delle imprese. Anche se ciò avviene innanzitutto a danno dei lavoratori e delle imprese di altri paesi (gli stati che vengono imperialisticamente sottomessi), ma anche dei propri stessi lavoratori. L’antagonismo fra imperialismo e riforme sociali è, pertanto, lo stesso che raccontava Hobson più di un secolo fa: “le più importanti riforme sociali, come il miglioramento del sistema dell’istruzione pubblica, un ampio intervento nelle questioni del suolo e della casa in città e in campagna, il controllo pubblico del traffico degli alcolici, le pensioni di vecchiaia, la legislazione per migliorare le condizioni dei lavoratori, comportano considerevoli spese di denaro pubblico ottenuto con la tassazione imposta dalle autorità centrali e locali. Ora, con le spese militari sempre crescenti, l’imperialismo chiaramente prosciuga i fondi del denaro pubblico che potrebbe essere impiegato per questi scopi”. Ossia gli scopi che interessano noi e i “nostri”.

Oggi come un secolo fa, la logica del capitalismo resta la medesima e la citazione dal saggio di Hobson ci aiuta a capire che la storia che ci viene raccontata della necessità di riarmarsi perché gli europei sarebbero minacciati è una balla. Se realmente fosse così, a Bruxelles vincolerebbero tutte le risorse a progetti comuni, all’efficientamento della spesa, alla riduzione dei sistemi d’arma e metterebbero mano prima di tutto alla creazione di una politica estera comune e quindi di un esercito europeo.

La verità è che non c’è nessun pericolo di invasione o attacco da parte della Federazione Russa, ma si sta solo utilizzando il conflitto in Ucraina per giustificare una gigantesca rapina a lavoratrici e lavoratori. Una rapina i cui proventi andranno alle industrie delle armi e a quelle collegate, e con cui le borghesie europee tentano di uscire dallo stato di crisi e rilanciare il processo di accumulazione. Nel breve periodo il senso di questa operazione è di ridurre ulteriormente il welfare state che ha caratterizzato l’Europa occidentale dal Secondo Dopoguerra, dirottandone i fondi (dalla scuola, dalla sanità, dalle pensioni, dai sussidi al lavoro) verso scopi più “profittevoli”. Senza nemmeno la certezza che, nel medio termine, questa riorganizzazione sia davvero in grado di risolvere i problemi citati, ossia di un’Europa frammentata e senza grandi capitali capaci di scelte unitarie, interoperabili, anche in campo bellico. In poche parole: intanto riarmarsi per fare profitto; poi, se la cosa aiuterà in termini di difesa, si vedrà.

Bastano queste brevi considerazioni a mostrare tutta l’inconsistenza delle piazze “europeiste”, o di chi vi partecipa nella convinzione – illusoria – che questa Unione Europea abbia ancora qualcosa a che vedere con la pace e il pacifismo. I “valori europei”, come quelli di tutti i paesi capitalistici, sono in primo luogo quelli della competizione economica e sull’altare del profitto sacrificano volentieri, più o meno ipocritamente, tutto il resto. Sta ai popoli europei e alle loro organizzazioni di base indicare la via per un’altra strada.

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