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Me-Ti

Cento anni dalla scomparsa del compagno Lenin

Vijay Prashad

Versione inglese originale qui.

Vijay Prashad, direttore di Tricontinental: Institute for Social Research, corrispondente di Globetrotter e direttore editoriale di LeftWord Books (Nuova Delhi). 

Vladimir Ilyich Ulanov (1870-1924) era conosciuto con il suo pseudonimo – Lenin. Come i suoi fratelli fu un rivoluzionario, il che nel contesto della Russia zarista significa che passò lunghi anni in prigione e in esilio. Lenin aiutò a costruire il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori russo tanto col suo lavoro intellettuale che con quello organizzativo. Gli scritti di Lenin non sono soltanto le sue parole, ma la somma dell’attività e dei pensieri di migliaia di militanti che incrociarono il suo cammino. Fu la straordinaria abilità di Lenin di sviluppare in ambito teorico le esperienze dei militanti a plasmare quello che chiamiamo leninismo. Non sorprende che il marxista ungherese György Lukács definisca Lenin come “il solo teorico di livello pari a quello di Marx che fino ad oggi sia venuto dalle file della lotta di emancipazione proletaria”.

Costruire una rivoluzione

Quando nel 1886 scoppiarono scioperi spontanei nelle fabbriche di Pietroburgo, i rivoluzionari socialisti furono colti inconsapevoli. Erano disorientati. Cinque anni dopo, scrisse Lenin, “I rivoluzionari sono rimasti indietro al progresso del movimento, e nelle loro ‘teorie’ e nella loro attività non sono riusciti a creare un’organizzazione che non abbia soluzioni di continuità, un’organizzazione permanente capace di dirigere l’insieme del movimento”. Per Lenin questo ritardo andava colmato. 

La maggior parte degli scritti di Lenin seguirono questa intuizione. Lenin analizzò contraddizioni del capitalismo in Russia (Lo sviluppo del capitalismo in Russia, 1896), cosa che gli permise di capire come nel tentacolare Impero zarista i contadini avessero un carattere proletario. Fu su questo punto che Lenin sostenne l’alleanza tra operaio e contadino contro lo zarismo e i capitalisti. Fu grazie al suo coinvolgimento nella lotta di massa e ai suoi scritti teorici che Lenin capì che i socialdemocratici – come il settore più liberale di borghesia e aristocrazia – non erano capaci di guidare una rivoluzione borghese, e ancor meno il movimento che avrebbe portato all’emancipazione di contadini e operai. Questo lavoro fu fatto in Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica (1905). Due tattiche è forse il primo trattato marxista importante che dimostra la necessità di una rivoluzione socialista, persino in una nazione “arretrata”, in cui operai e contadini dovrebbero allearsi per abbattere le istituzioni della servitù.

Questi due testi mostrano come Lenin aggirava la visione di una Rivoluzione russa che scavalcasse lo sviluppo capitalista (come suggerivano i populisti – narodniki) o che dovesse passare per il capitalismo (come sostenevano i democratici liberali). Nessuno dei due cammini era possibile o necessario. Il capitalismo era già entrato in Russia – cosa che i populisti non riconoscevano – e poteva essere superato da una rivoluzione operaia e contadina – cosa che i democratici liberali mettevano in discussione. La Rivoluzione del 1917 e l’esperimento sovietico avvalorarono le posizioni di Lenin. 

Avendo chiarito che le élites liberali all’interno della Russia zarista non erano capaci di guidare una rivoluzione operaia e contadina, ma neppure una rivoluzione borghese, Lenin diresse la sua attenzione sulla situazione internazionale. Dal suo esilio in Svizzera, Lenin vide i socialdemocratici capitolare di fronte all’insorgere del bellicismo nel 1914 e immolare i proletari alla guerra mondiale. Frustrato dal tradimento dei socialdemocratici, Lenin scrisse un testo importante – L’imperialismo: fase suprema del capitalismo – in cui sviluppava una lucida comprensione della crescita del capitale finanziario e delle compagnie monopoliste, così come del conflitto inter-capitalista e inter-imperialista. In questo testo Lenin esplorava i limiti dei movimenti socialisti in Occidente – dove l’aristocrazia operaia poneva una barriera alla militanza socialista – e il potenziale per una rivoluzione a Est – dove era situato “l’anello debole” della catena imperialista. Dai suoi diari si evince che Lenin lesse 148 libri e 213 articoli in inglese, francese, tedesco e russo per chiarire il suo pensiero sull’imperialismo. Una valutazione lucida di questo tipo sull’imperialismo fece sì che Lenin sviluppasse una posizione forte sui diritti delle nazioni all’autodeterminazione, che si trovassero queste nazioni all’interno dell’Impero zarista o in qualunque altro impero europeo. Qui troviamo il fulcro dell’anticolonialismo dell’Unione Sovietica – maturato poi nell’Internazionale Comunista (Comintern).

Il termine “imperialismo”, fondamentale per la rielaborazione leninista della tradizione marxista, si riferisce allo sviluppo diseguale del capitalismo su scala globale e all’uso della forza per mantenere tale disuguaglianza. Certe parti del pianeta – principalmente quelle che hanno una precedente storia di colonizzazione – rimangono in una posizione di subordinazione, visto che la loro possibilità di creare un piano di sviluppo nazionale indipendente dai tentacoli del potere politico, economico e socioculturale straniero è limitata. Oggi vi sono nuove teorie che sostengono che la situazione odierna non possa più essere compresa dalla teoria leninista dell’imperialismo. A sinistra alcuni respingono l’idea della struttura neocoloniale dell’economia mondiale, in cui il blocco imperialista, guidato dagli Stati Uniti, userebbe qualsiasi strumento di potere per mantenerla. Altri, anche da parte della sinistra stessa, sostengono che il mondo sia ora omogeneo, che non vi sia più un Nord globale che opprime un Sud globale e che le élites di entrambe le regioni siano parte di una borghesia internazionale. Nessuna di queste due obiezioni regge se messe a confronto sia con i livelli crescenti di violenza perpetuata dal blocco imperialista sia con i livelli crescenti di una relativa disuguaglianza tra Nord e Sud (nonostante la crescita delle élites capitaliste nel Sud). Alcuni elementi dell’Imperialismo di Lenin sono naturalmente datati – fu scritto un secolo fa – e avrebbero bisogno di un’attenta revisione. Ma l’essenza della teoria è valida: l’insistere sulla tendenza delle imprese capitaliste a diventare monopoliste, la ferocia con cui il capitale finanziario prosciuga la ricchezza del Sud globale e l’uso della forza per contenere le aspirazioni delle nazioni del Sud a strutturare il proprio piano di sviluppo.

Uno degli insegnamenti centrali di Lenin, che si rivolgeva a chi abitava nelle colonie, era l’idea che l’imperialismo non avrebbe mai portato sviluppo al territorio colonizzato, e che solo le forze socialiste, in collaborazione con i gruppi di liberazione nazionale, sarebbero state capaci sia di lottare per l’indipendenza nazionale sia di far poi avanzare quei paesi sulla via del socialismo. L’agguerrita determinazione anticoloniale di Lenin avvicinò le sue idee al mondo colonizzato, motivo per cui queste regioni si aggregarono entusiaste al Comintern del 1919. Ho Chi Minh lesse tra la commozione la tesi del Comintern sui temi nazionali e coloniali. Sentiva che era una “guida miracolosa” per la lotta della gente dell’Indocina. “Sulla scia delle esperienze della Rivoluzione russa – scrisse Ho Chi Minh – dovremmo mettere le persone, operai e contadini, alla base della nostra lotta. Abbiamo bisogno di un partito forte, di una volontà forte, con al centro sacrificio e unanimità”. “Come un sole splendente – continua Ho Chi Minh – la Rivoluzione di Ottobre ha diffuso luce su tutti i cinque continenti, svegliando milioni di oppressi e sfruttati su questo pianeta. Nella storia dell’umanità non vi è mai stata una rivoluzione così grande e di così vasta portata”. 

Lenin passò infine il periodo che va tra il 1839 e il 1917 studiando i limiti del partito di vecchio stampo – il partito socialdemocratico. Il testo di Lenin – Il nostro programma – sottolinea come l’attività del partito debba essere continua, senza dipendere da focolai spontanei o acerbi [stikhiinyi]. Tale attività continua permette al partito un contatto intimo e organico con la classe operaia e i contadini, e aiuta anche a far sbocciare proteste potenzialmente capaci di acquisire un carattere di massa. Fu questa considerazione a condurre Lenin all’elaborazione della sua idea di partito rivoluzionario nel Che fare? (1902).

Il testo metteva brillantemente in evidenza il ruolo degli operai che avevano acquisito una coscienza di classe quale avanguardia del partito così come l’importanza dell’agitazione politica tra gli stessi operai al fine di sviluppare una consapevolezza politica autenticamente potente contro ogni tirannia e ogni oppressione. Gli operai, argomentava Lenin, hanno bisogno di sentire l’intensità della brutalità del sistema e l’importanza della solidarietà. 

I testi – tra il 1896 e il 1916 – prepararono il terreno perché i Bolscevichi e Lenin capissero come agire nelle lotte del 1917. Il fatto che abbia scritto l’audace opuscolo I bolscevichi conserveranno il potere statale? poche settimana prima della presa del potere è una misura della fiducia che Lenin aveva nelle masse e nella sua teoria.

Costruire lo Stato 

Una volta preso il potere, Lenin doveva affrontare i problemi relativi alla costruzione di un progetto socialista nell’ex l’Impero zarista devastato dall’avidità e dalla guerra. Prima che i soviet potessero organizzarsi, gli imperialisti attaccarono con ogni mezzo. Interventi diretti a favore di contadini e operai, così come delle minoranze nazionali, prevennero su grande scala le defezioni dalla nuova Rivoluzione verso gli eserciti controrivoluzionari. I contadini, a causa dei loro limitati mezzi, resistettero al nuovo inizio. Ma proprio quello era il punto – i “mezzi limitati”. Come si poteva costruire il socialismo in una nazione povera, dove lo sviluppo sociale era impedito dall’autocrazia zarista?

Una lettura attenta di Stato e rivoluzione (1918) anticipa i problemi affrontati dai soviet nella loro nuova missione. Questi potevano non soltanto ereditare la struttura statale, ma dovevano “distruggere lo Stato”, costruire una nuova serie di istituzioni e una nuova cultura istituzionale, creando un nuovo atteggiamento da parte dei quadri verso lo Stato e la società. Nell’aprile del 1918, il testo leniniano I compiti immediati del potere sovietico riassuse il lavoro dei primi mesi, mostrando come i soviet fossero ben consapevoli dei problemi profondi che dovevano affrontare. La loro rivoluzione non aveva avuto luogo in un paese capitalista avanzato, ma in ciò che Marx aveva chiamato il “regno della necessità”. Aumentare le forze produttive e allo stesso tempo socializzare i mezzi di produzione era un compito di proporzioni immense. 

“Senza istruzione – scrisse Lenin – non può esservi politica. Vi sono soltanto chiacchiere, pettegolezzi e pregiudizi”. Molte delle poche risorse a disposizione dello Stato sovietico furono destinate all’alfabetizzazione: i quadri del Partito erano determinati a mutare una realtà in cui ad essere alfabetizzati erano un terzo degli uomini e meno di un quinto delle donne. Con la campagna di Likbez, la politica di indigenizzazione (korenizatsiya) e l’uso delle lingue regionali e minoritarie, i Soviet furono capaci – in un ventennio – di assicurare che l’alfabetizzazione salisse all’86 % per gli uomini e al 65 % per le donne. La centralità di operai e contadini nella costruzione della Russia sovietica è spesso dimenticata (Mikhail Kalinin veniva da una famiglia contadina; Iosif Stalin veniva da una famiglia di calzolai e domestiche). Educazione, salute, abitazione e controllo sull’economia come pure sulle attività culturali e lo sviluppo sociale furono al centro del lavoro della Russia sovietica guidata da Lenin. Nonostante l’enorme quantità di sciocchezze messe in circolazione dalla destra, nessuna di esse potrà mai cancellare gli enormi risultati raggiunti dallo Stato Operaio.

Nell’ultimo anno di vita, Lenin scrisse quattro formidabili testi: Sulla cooperazione, Sulla nostra rivoluzione, Come riorganizzare l’ispezione operaia e contadina e Meglio meno, ma meglio. In questi testi Lenin riconobbe le difficoltà nel processo di trasformazione del capitalismo in socialismo. Scrisse della “enorme, sconfinata importanza” delle società cooperative, del bisogno di ricostruire la base produttiva e di costruire società capaci di promuovere la fiducia delle masse. Ciò che Lenin indicava era il bisogno di una trasformazione culturale, un nuovo stile di vita per operai e contadini e modi nuovi e creativi di esercitare il loro potere sulla società e raggiungere, grazie alla prassi, dei risultati stabili. I lavoratori avevano ereditato l’architettura di uno stato odioso e ciò doveva essere completamente trasformato. Ma come? La riflessione di Lenin in Meglio meno, ma meglio è brutalmente onesta:

Di quali elementi disponiamo per costruire un tale apparato? Di due soltanto. In primo luogo, degli operai, impegnati nella lotta per il socialismo. Questi elementi non sono abbastanza istruiti. Essi vorrebbero darci un apparato migliore, ma non sanno come farlo, non possono farlo; non hanno finora potuto acquisire la cultura che è indispensabile per farlo. E la cultura è quel che occorre. L’irruenza, l’impeto, l’audacia o l’energia, o in generale qualità umane anche migliori non servono a nulla. In secondo luogo, gli uomini che sanno, che sono istruiti e che sanno insegnare, sono da noi, in confronto a tutti gli altri Stati, in numero piccolo sino al ridicolo. 

Nella sua ultima apparizione in pubblico – al soviet di Mosca nel novembre del 1922 – Lenin elogiò i risultati ottenuti dalla giovane Repubblica sovietica, ma mise anche in guardia rispetto all’arduo cammino che si delineava. “Il nostro partito”, disse, “un piccolo gruppo di persone in confronto a tutta la popolazione del paese, si è accinto a questo compito. Questo piccolissimo nucleo si propone di trasformare tutto e tutto trasformerà”. Questo non è solo il compito del Partito ma degli operai e dei contadini, che vedono come proprio l’apparato sovietico. “Abbiamo portato il socialismo sul terreno della vita quotidiana e qui dobbiamo saperci districare. Ecco qual è il problema del momento, il problema della nostra epoca”. L’Unione Sovietica è durata solo settantaquattro anni, ma in quegli anni ha provato con forza a superare le miserie del capitalismo. Settantaquattro anni sono l’aspettativa di vita a livello globale. Non c’era semplicemente abbastanza tempo per portare avanti l’agenda socialista prima che l’Unione Sovietica fosse distrutta. Ma l’eredità di Lenin non è da ricercare soltanto nell’Unione Sovietica. È nella lotta globale che trascende i problemi con cui l’umanità si confronta nell’avanzata verso il socialismo.

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