Traduciamo l’articolo “I Forgot to Die. Thinking through the Social Reproduction of Palestinian Life”, uscito nel marzo scorso su Spectre Journal, in cui la storica, teorica e attivista Tithi Bhattacharya usa la lente della teoria della riproduzione sociale per leggere l’insopprimibile forza del popolo palestinese nella produzione e riproduzione della propria vita, al di là di tutte le forme in cui il progetto coloniale sionista la attacca e cerca di annichilirla. L’immagine è di Majdi Fathi.
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Oggi è il 167° giorno dall’inizio del genocidio perpetrato da Israele contro la popolazione palestinese, cominciato il 7 ottobre. Già prima dell’attacco di Hamas, il 7 ottobre, i media avevano definito il 2023 come “l’anno più letale mai registrato” per i palestinesi della West Bank. Lo scorso anno le forze israeliane hanno ucciso 395 palestinesi in Cisgiordania, mentre i coloni sono responsabili di altre 9 uccisioni. Se questi omicidi rappresentano la cessazione immediata della vita, Israele porta avanti altre forme di violenza – come, ad esempio, attacchi a scuole e ospedali – volte a impedire ai palestinesi di crearsi una vita. In Palestina, una guerra dichiarata è un’escalation spazio-temporale di una guerra lenta e continua contro il suo popolo.
In questo saggio, utilizzando la lente della teoria della riproduzione sociale (SRT), mostro che il blocco (attuato attraverso l’azione politica) o l’annientamento (attraverso la violenza) della vita palestinese sono intrinsechi al progetto sionista. Di conseguenza, nell’attuale ciclo di violenza, Israele sta prendendo di mira due tipologie di possibilità socio-riproduttive: le istituzioni di riproduzione sociale, come scuole e ospedali, e la generazione futura, cioè i bambini e le bambine. Israele vuole sradicare sia la vita che la capacità di riprodurre una vita futura. Il cessate il fuoco può quindi essere solo una minimale richiesta di partenza. Lo sviluppo della vita in Palestina richiede più che la cessazione delle uccisioni; richiede ciò che Marx intendeva come la realizzazione dell’essere della specie. L’ineliminabile creatività della resistenza palestinese ci mostra in modo chiarissimo ciò che l’essere della specie può, e anzi deve, significare.
Ripensare la vita attraverso Marx
Le femministe, che si sono occupate della riproduzione sociale, hanno usato l’espressione lifemaking per identificare i molteplici modi in cui gli esseri umani lavorano per trasformare la natura al fine di mantenere sé stessi e soddisfare i propri bisogni. Io utilizzo questo concetto per comprendere i legami, le connessioni e gli intrecci effettivi fra i punti nodali della rete della violenza sionista, sia diretta che indiretta. Per riconoscere le continuità tra l’aggressione militare e il contenimento militarizzato della vita palestinese, dobbiamo partire dalla destabilizzazione, dalla vulnerabilità e dall’annientamento delle capacità palestinesi di riproduzione sociale. Il concetto di lifemaking ci fornisce il tessuto connettivo analitico tra i diversi nodi.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx ci fornisce un’attenta distinzione tra lavoro alienato e non alienato. Il primo, sotto la direzione capitalistica, viene avvertito come “esterno al lavoratore”, mentre nel secondo l’essere umano fa “dell’attività vitale stessa l’oggetto della sua volontà e della sua coscienza”1. Come esseri umani siamo dotati di capacità di scelta deliberata: il nostro lavoro non ci è congenito (come avviene invece nel caso di un ragno). Troppi marxisti si sono concentrati su cibo, riparo e così via quando citano i prodotti che derivano dall’azione dell’uomo sulla natura. Marx, tuttavia, considerava questi prodotti di prima necessità come esempi limitati. Che cos’è, allora, la produzione di vita, il lifemaking, in senso non restrittivo?
Marx usa la parola spirituale ventidue volte in quest’opera. Egli identifica il lavoro umano come una forma di attività in cui “si manifesta tutta la varietà naturale, spirituale e sociale dell’attività individuale”2.È molto più interessato alla libertà e all’universalità di quel lavoro umano che svolgiamo non solo “sotto il dominio del bisogno fisico immediato”, ma soprattutto quando siamo “liberi dal bisogno fisico”; così, “[produciamo] solo e veramente… quando ne siamo liberi”3.
La distinzione tra il lifemaking sottoposto ai regimi di lavoro capitalistici di lavoro e il lifemaking realizzato in condizioni di libertà è un tema persistente in Marx. Egli utilizza un quadro aristotelico, mediato da Hegel, per discutere le libertà formali, disponibili nel capitalismo, e le illibertà e l’alienazione che si nascondono sotto di esse. Marx concorda con i teorici liberali sul fatto che una condizione di libertà possiede una dimensione storica e che, anche nei suoi processi di base, deve essere fondata sulle necessità del lifemaking, della produzione della vita. Sosteneva così che “il regno della libertà” inizia davvero “solo dove finisce il lavoro determinato dalla necessità e dall’utilità esterna”4.
Seguendo Marx, possiamo distinguere chiaramente tra il vivere (una forma di lifekaming nelle condizioni capitalistiche di libertà formale, ma lavoro alienato) e il prosperare (una forma di lifemaking propria della nostra specie).
Se da un lato la distinzione è netta in Marx, dall’altro è chiaro che nella vita quotidiana sotto il capitalismo si intravede spesso ciò che io chiamo “prosperare”. Se il lavoro alienato è quello costretto da una forza esterna che viene imposta a chi lavora, il lavoro non alienato è quello che viene liberamente scelto e autodeterminato. All’interno del contesto generale di alienazione sistemica, nutriamo ancora le nostre piante/animali/bambini, facciamo arte e facciamo dell’ottimo sesso: tutte forme di lavoro che svolgiamo con relativa libertà. Nei Grundrisse, Marx si riferisce al comporre musica come “lavoro veramente libero“, che richiede “il massimo sforzo” ed è “allo stesso tempo dannatamente serio”5.
Così, quando la poetessa femminista palestinese Rafeef Ziadah scrive: “Noi palestinesi ci svegliamo ogni mattina per insegnare al resto del mondo la vita”, ci leggo una teorizzazione incisiva della politica del lifemaking. Ci leggo un invito a esplorare ciò che accade al lifemaking, alla creazione di vita, sia nel senso di vita che di prosperare, in Palestina.
Nakba e creazione di vita
Israele fronteggia la vita palestinese attraverso tre grandi strategie: l’espulsione, il massacro intenzionale delle generazioni e il controllo della fertilità. Mentre il quadro analitico del colonialismo d’insediamento chiarisce il progetto biopolitico del sionismo, la SRT e il suo ampio concetto di lifemaking ci permettono di individuare i molteplici modi in cui lo stato sionista cerca di impedire ai palestinesi non solo di restare vivi, ma anche di restare umani6.
In questo caso, ci è utile l’acuto concetto di debilitazione (debility)di Jasbir Puar. Attraverso un toccante studio della vita dei neri e dei palestinesi, Puar ci offre una teorizzazione dell’economia politica della capacità corporea. Secondo Puar, gli apparati statali oppressivi pongono la morte e la debilitazione in una relazione produttiva reciproca. Gli stati si riservano il diritto di essere gli unici dispensatori di morte, ma Puar dimostra che non uccidere i palestinesi non è un “risparmiare dalla morte per motivi umanitari”, ma piuttosto una mossa per renderli “sistematicamente e completamente debilitati” – è un “uso e un’articolazione biopolitica del diritto alla menomazione”. Questa costante debilitazione crea un “regime di potere asfissiante” che si snoda nello spazio e nel tempo attraverso intricate relazioni sociali di violenza e occupazione7.
Il concetto di debilitazione di Puar dovrebbe essere esteso per includere la menomazione delle istituzioni che producono vita. Questo senso è implicito in Puar quando parla della “guerra infrastrutturale” o dell’assalto di Israele alle infrastrutture come “una componente essenziale, persino centrale, della regolazione biopolitica di un collasso umanitario malleabile”. L’autrice si basa sul lavoro svolto da Omar Jabary Salamanca, riproducendo il suo riferimento al politico israeliano Dov Wiesglass che descrive la politica israeliana come “un appuntamento con un dietologo. I palestinesi dimagrirebbero un po’, ma non morirebbero”8.
È la continuità di questo assalto alla vita, di questo potere asfissiante e di questo assottigliamento che spero di cogliere qui.
Differenza nel parto
Un approccio biopolitico del tutto opposto è riservato alla popolazione ebraica interna a Israele. Fin dal 1948 Israele ha inserito politiche a favore della natalità nella miriade delle sue istituzioni, costituendo un regime riproduttivo basato su premi monetari e comitati che assicurano un tasso crescente di natalità. Teorici critici come Sigrid Vertommen e Nira Yuval Davis hanno identificato queste iniziative, per fare solo alcuni esempi, nel “Premio Eroina” del 1949 per le madri con dieci figli, nel Centro demografico del 1968 con il suo Fondo per l’incoraggiamento delle nascite e, più recentemente, nel Consiglio israeliano sulla demografia del 20029. Meira Weiss ha analogamente notato la vena profondamente eugenetica del sionismo che, storicamente, attraverso una “rivoluzione corporea”, mirava a “creare un nuovo popolo adatto a una nuova terra”. Il corpo ebraico ideale che emergeva da queste politiche era “maschile, ebreo, ashkenazita, perfetto e sano” – un corpo che Weiss chiama “il corpo eletto”10.
Nel frattempo, tutte le madri in Israele hanno diritto al congedo di maternità e molte di loro all’indennità di maternità. I cittadini di Tel-Aviv parlano della città come di una città “nota per le sue coccole alle neomamme”11. I caffè della città organizzano “attività quotidiane ‘Mamma e io’ come arti e mestieri, fisioterapia e massaggi, e cliniche per l’allattamento e il sonno”. Come parte di questa vita prospera, al bambino ebreo israeliano è assicurata un’istruzione pubblica gratuita in un sistema scolastico che si colloca al quinto posto nel mondo (davanti a Stati Uniti e Regno Unito)12.
Oggi, due grandi tecnologie danno forma alla biopolitica sionista, una incentrata sulla fertilità e sulla maternità e l’altra sulla diagnostica fetale. Mentre altrove le tecnologie di riproduzione assistita (ART) hanno costi proibitivi, in Israele sono gratuite. Nel 2010, il parlamento israeliano ha approvato la controversa legge sulla donazione di ovuli, che consente alle donne di donare i propri ovuli in cambio di un compenso economico, permettendo così alle donne sterili di richiederne la donazione. Tuttavia, gli emendamenti alla legge prevedono che il donatore e il ricevente dell’ovulo condividano la stessa religione, rendendo impossibile per una donna ebrea donare un ovulo a una persona musulmana, cristiana o drusa e viceversa.
Il secondo tipo di tecnologie agisce dopo il concepimento. Le donne ebree israeliane sono al primo posto nel mondo per quanto riguarda la medicalizzazione delle nascite e la sorveglianza del feto, con il 60% di loro che si sottopone a test diagnostici prima del parto. I genitori israeliani preferiscono l’aborto, anche in caso di piccole “menomazioni” corporee come il labbro leporino, spingendo Weiss a commentare che “l’ossessione israeliana per la fertilità non riguarda solo la quantità ma anche la qualità”.
La riproduzione sociale della vita israeliana non si limita ovviamente alle sole tecnologie di nascita. Un’intera infrastruttura sociale e statale assicura il prosperare della vita israeliana e l’annientamento/debilitazione dei palestinesi. All’interno della Palestina storica i metodi di debilitazione variano. La voluta suddivisione della Palestina in diversi regimi di controllo assicura la violenza quotidiana sui palestinesi in questi territori deregolamentati, inducendo Noura Erakat a dire che Israele cerca di ottenere a Gaza “con la guerra, ciò che cerca di fare in Cisgiordania con la legge marziale, a Gerusalemme Est con il diritto amministrativo, nella Palestina storica con il diritto civile”13. In modi diversi, che si sommano l’uno all’altro proprio a causa di queste differenze, le strategie di Israele precludono forzatamente la prosperità dei palestinesi controllando i percorsi chiave per la creazione della vita, per il lifemaking.
Gli organismi internazionali, come le Nazioni Unite e la Banca Mondiale, utilizzano alcuni parametri per giudicare quello che chiamano sviluppo e cheio chiamo prosperità. L’accesso al cibo, all’acqua potabile, alla casa, all’assistenza sanitaria e all’istruzione sono i parametri di valutazione più comuni. In Palestina, l’accesso a ciascuno di questi elementi è determinato da tecnologie coloniali. Inoltre, sebbene questi registri formino una sorta di “elenco”, voglio richiamare l’attenzione sul modello operativo generalizzabile di Israele che costituisce la cornice in cui si inseriscono tutti. In altre parole, Israele organizza lo spazio e le persone in modi particolari che garantiscono la crescita e il consolidamento del potere coloniale.
Vivere e prosperare
La ricerca anticoloniale ci ha insegnato che i paesaggi sono composti da politiche che producono la natura non solo come luogo di lavoro umano, ma anche come categoria di pensiero e immaginazione. Consideriamo il posto del pesce in Palestina. Il sapore e l’odore del pesce sono nell’architettura cellulare della storia palestinese. I racconti popolari intrecciano queste storie nelle storie del Re del Pesce, mentre l’aneto, l’aglio e il peperoncino raccontano questastessa storia ai sensi. Ma le acque che lambiscono Gaza non sono né neutre né prive di cornici coloniali. Ai pescatori gazawi è consentito pescare solo a sei miglia nautiche o meno dalla costa, quando la maggior parte dei pesci si trova ad almeno nove miglia di distanza. Oceani, deserti, rocce e pesci possono relazionarsi con i palestinesi solo attraverso il controllo israeliano, creando così, innanzitutto, quelle che Elizabeth Povinelli ha definito “geontologie” del potere coloniale14.
Nel 1967 Israele ha decretato che i palestinesi non potevano costruire alcun nuovo impianto idrico senza un permesso. Tali permessi sono tuttora impossibili da ottenere, impedendo così ai palestinesi di trivellare pozzi o installare pompe. Il fiume Giordano, nella cui valle sono sepolti alcuni dei più fidati compagni del Profeta Maometto, è ora una ferita per la vita dei palestinesi, che non possono accedere alle sue acque: oltre 180 comunità rurali palestinesi nella Cisgiordania occupata non hanno accesso all’acqua.
La situazione è più grave a Gaza, dove l’acqua potabile è “salata come il mare”15. Inoltre, dal 2007, Israele ha sottoposto i bambini palestinesi di Gaza a quella che l’IDF definisce una “dieta da fame”. Quasi l’80% dei bambini di Gaza sopravvive con meno di 1 dollaro al giorno, e di conseguenza una parte significativa di loro soffre la fame ogni giorno, poiché il loro accesso alle calorie sufficienti è diminuito a causa dell’assedio in corso16.
Mentre i posti di blocco mutilano il territorio, molti bambini palestinesi devono percorrere grandi distanze per raggiungere la scuola più vicina. Alle scuole arabe vengono assegnate risorse mediamente inferiori del 40% rispetto all’istruzione ebraica (su base individuale per studente). Nel 2018, la Knesset israeliana ha approvato la Legge sullo Stato-Nazione che ha privato l’arabo del suo status di lingua ufficiale, costringendo bambine bambini arabi a vivere una vita esofonica.
I palestinesi vengono così incessantemente messi nella condizione di essere fuori posto nella loro stessa patria. Anche le strade sanciscono e garantiscono l’esclusione razziale. Il colore delle targhe determina la mobilità: le auto con targhe palestinesi non sono ammesse sulle strade israeliane, indipendentemente dall’identificazione del conducente. Un muro di apartheid e molteplici checkpoint contribuiscono a creare un delirante labirinto di legalità attraverso la terra mutilata, dove a ogni nodo di contatto con lo stato israeliano, il palestinese è giuridicamente ed emotivamente messo in una condizione di estraneità.
Queste politiche differenziate di riproduzione sociale producono risultati crudi: nel 2020 più della metà delle famiglie arabe poteva essere considerata povera, mentre ciò valeva solo per il 40% delle famiglie ebree17. In questa sede, voglio sottolineare come la relazione coloniale sia produttiva e generativa, piuttosto che statica. Si riproduce non solo attraverso le leggi e le politiche statali, ma attraverso la segmentazione, l’ordinamento e la chiusura sistemica dell’intero corpo sociale.
“Dimenticare di morire”
Oggi Israele esprime la quintessenza del capitalismo globale. L’impegno statale nel controllo non egemonico, l’avvelenamento dell’ecologia palestinese e l’aperto rifiuto della maggior parte delle forme di democrazia catturano l’essenza sistemica del capitalismo quando viene spogliato delle forme borghesi. La prosperità della vita ebraica israeliana contiene un ulteriore scopo e una funzione che va oltre l’espulsione dei palestinesi dal corpo sociale. Tale prosperità – i bei viali, i prati ben irrigati – permette alla società israeliana di imitare da vicino l’Occidente, riproponendo così i vecchi pregiudizi orientalisti dell’Occidente civilizzato contro l’Oriente barbaro. Questa identificazione rende anche l’Occidente più comprensivo nei confronti del modo di vivere israeliano, dove, nei libri contabili dell’Occidente, il valore della vita israeliana continua a salire rispetto a quella palestinese.
In questo saggio ho cercato di mostrare perché le infrastrutture di vita in Palestina sono unicamente e intensamente politiche e come la prosperità della vita israeliana sia legata alla debilitazione della vita palestinese. Il racconto di Ursula K. Le Guin “The One Who Walks Away from Omelas” cattura questa relazione violenta. Nel racconto ci viene presentata una città fiabesca, Omelas, dove la vita è perfetta e abbondante per tutti i suoi cittadini. Omelas, tuttavia, nasconde un segreto. Nella città è sepolta l’unica atrocità di questa società, un bambino tenuto in costante stato di miseria e abiezione. Una volta che i cittadini di Omelas sono abbastanza grandi, viene loro raccontata questa verità sulla loro prosperità e la maggior parte di loro arriva ad accettarla come un sacrificio necessario per il loro splendore; alcuni si allontanano da Omelas, ma la maggior parte sceglie di rimanere. Le immagini dei civili israeliani che esultano mentre bloccano i camion degli aiuti a Gaza dovrebbero dare un contesto effettivo a quanto scritto da Le Guin e sconvolgere la comprensione convenzionale della violenza coloniale.
Ma se questo paragone con Omelas regge piuttosto bene per gli israeliani, fallisce decisamente nel rappresentare la condizione palestinese, perché i palestinesi sono ben lontani da quel bambino immaginario. Sono invece un popolo che si avvicina di più alla definizione dell’essere della specie umana di Marx con cui abbiamo iniziato questo saggio.
Il militante sudafricano Barry Vincent Feinberg una volta osservò che “un numero insolitamente elevato di poesie proviene da poeti palestinesi”. Un poeta palestinese, rispondendo al commento di Feinberg, rispose: “L’unica cosa che non è mai stata negata al mio popolo è il diritto di sognare”. Questa è una caratteristica straordinaria, ma costante della vita palestinese nonostante cento anni di violenza coloniale.
Le parole del poeta palestinese, come quelle di molti altri poeti, contengono una brillante contraddizione. Da un lato, l’arte palestinese racconta la violenta espulsione/controllo dei palestinesi dal/nel corpo sociale, ma dall’altro l’esistenza di quest’arte in condizioni di debilitazione è un rifiuto della deportazione palestinese. Queste espressioni delle vite palestinesi nell’arte e nella vita quotidiana dovrebbero indurci a riflettere sull’affermazione di Marx secondo cui la musica era “lavoro veramente libero” e che tale lavoro costituiva un leitmotiv continuo all’interno e nonostante l’alienazione capitalista.
Ciò che sostengo è che oggi la Palestina incarna proprio questa insopprimibile tensione umana all’interno del capitalismo – motivo per cui, come le ribellioni degli schiavi ai tempi di Marx e la resistenza dei vietnamiti negli anni Sessanta, la lotta palestinese oggi si pone in risonanza con larga parte degli oppressi che vedono la propria lotta o la propria umanità espressa in quella dei palestinesi.
I colonizzatori sionisti conoscevano bene la forza dell’umanità palestinese. Il generale Moshe Dayan una volta disse che leggere una poesia di Fadwa Tuqan era come “affrontare venti commando nemici”. È così che Tuqan parlava della Palestina:
la nostra terra ha un cuore pulsante,
non smette di battere e sopporta
l’insopportabile. Custodisce i segreti
delle colline e dei grembi. Questa terra che germoglia
di spighe e palme è anche la terra
che dà vita a un combattente per la libertà.
Questa terra, sorella mia, è una donna.(Fadwa Tuqan, Hamza).
Questo “sogno” della Palestina è ovviamente al di là delle energie creative formali (come comporre poesie o musica), ma è un sogno di ritorno, di patria e di storia, che indica una serie di lavori coscienti e mirati per sostenere quel “sogno”. Questo lavoro “razionale”, che mira alla pienezza del benessere umano, è la quintessenza della specie umana. Bertell Ollman indica che Marx si avvicina di più alla definizione di “natura umana in generale” quando dice: “L’intero carattere di una specie… è contenuto nel carattere della sua attività vitale; e l’attività libera e consapevole è il carattere della specie dell’uomo”18. Come possiamo chiamare un popolo che costantemente, incessantemente, nonostante tutto ciò che viene intentato contro di esso, continua a svolgere “un’attività libera e consapevole”?. In un altro tempo e in un altro luogo, li chiamavamo schiavi in rivolta o vietnamiti resistenti. Oggi, senza dubbio, li chiamiamo palestinesi. O un popolo che, nonostante la violenza e l’espropriazione, continua a esprimere l’istinto fondamentale dell’umanità, che è quello di essere liberi. Nelle parole di Mahmoud Darwish:
Una donna soldato gridò:
Sei ancora tu? Non ti ho ucciso?
Io risposi: Tu mi hai ucciso… e io ho dimenticato, come te, di morire.(Mahmoud Darwish, “Gerusalemme”)
- Karl Marx, Economic and Philosophic Manuscripts of 1844, ed. Martin Milligan (Mineola, New York: Dover Publications, 2007), 72, 75. ↩︎
- Marx, Economic and Philosophic, 22. ↩︎
- Marx, Economic and Philosophic, 75. ↩︎
- Karl Marx, Capital: A Critique of Political Economy, Volume III, trans. David Fernbach (Harmondsworth: Penguin 1992), 958. ↩︎
- Karl Marx, “Grundrisse” in David McLellan, ed., Karl Marx: Selected Writings (Oxford: Oxford University Press, 1977), 368, corsivo nell’originale. ↩︎
- Tings Chak, “Not Only to Stay Alive, but to Stay Human: An Interview with Pavel Égüez,” Tricontinental, 23 giugno, 2020, https://thetricontinental.org/interview-2-2020-pavel-eguez/. ↩︎
- Jasbir Puar, The Right to Maim: Debility, Capacity, Disability (Durham and London: Duke University Press, 2017), 108, 135. ↩︎
- Puar, The Right to Maim, 135. ↩︎
- Il premio Maternità è stato interrotto nel 1959 quando il governo si accurse che erano soprattutto madri palestinesi a poterlo vincere. Si veda Daiva Stasiulis and Nira Yuval-Davis, eds., Unsettling Settler Societies: Articulations of Gender, Race, Ethnicity and Class (London: Sage Publications, 1995); Sigrid Vertommen, “From the pergonal project to Kadimastem: A genealogy of Israel’s reproductive-industrial complex,” Biosocieties 12, no. 2, 2017: 282–306. ↩︎
- Meira Weiss, The Chosen Body: The Politics of the Body in Israeli Society (Stanford, California: Stanford University Press, 2002), pp. 1–4. ↩︎
- Teddy Weinberger, “Maternity Leave in Israel,” Jewish Herald Voice, December 28, 2023, https://jhvonline.com/maternity-leave-in-israel-p32865-157.htm. ↩︎
- Erudera, “The World’s Most Educated Countries and their Main Common Characteristics,” Erudera, October 5, 2022, https://erudera.com/resources/worlds-most-educated-countries-their-main-common-characteristics/. ↩︎
- Sai Englert, Michal Schatz, Rosie Warren eds., From the River to the Sea: Essays for a Free Palestine, (New York: Verso, 2023), 13. ↩︎
- Elizabeth Povinelli, Geontologies: A Requiem to Late Liberalism (Durham, North Carolina: Duke University Press, 2016). ↩︎
- OXFAM International, “Timeline: the humanitarian impact of the Gaza blockade,”
https://www.oxfam.org/en/timeline-humanitarian-impact-gaza-blockade. ↩︎ - Hashem Said and Zahriyeh Ehab, “Gaza’s Kids Affected Psychologically, Physically by a Lifetime of Violence,” Al Jazeera, July 31, 2014. ↩︎
- Jack Khoury et al, “Five-year Plan for Israel’s Arab Community: $9 Billion Won’t Bridge a Gap Decades in the Making,” Haaretz, October 28, 2021, https://www.haaretz.com/israel-news/2021-10-28/ty-article/.premium/five-year-plan-for-israels-arab-community-9-billion-wont-bridge-the-gap/0000017f-e224-df7c-a5ff-e27e91760000. ↩︎
- Bertell Ollman, Alienation: Marx’s Conception of Man in Capitalist Society (Cambridge: Cambridge University Press, 1977), 109. ↩︎