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Il marxismo anticoloniale di Mahdi Amel

Hicham Safieddine

Hicham Safieddine è professore associato di storia presso la University of British Columbia. È autore di “Banking on the State: The Financial Foundations of Lebanon” (2019) e curatore di “Arab Marxism and National Liberation: Selected Writings of Mahdi Amel” (2021). Mahdi Amel (1936-1987) è stato un filosofo marxista e militante del Partito comunista libanese.

In questo articolo pubblicato nel mese di maggio su Jacobin, Hicham Safieddine esplora le principali tesi di Mahdi Amel che pongono le basi per una griglia analitica marxista adattata alle realtà dei Paesi colonizzati. Contrariamente agli approcci che marginalizzano la questione coloniale, il pensiero di Mahdi Amel si rivela prezioso per una comprensione marxista degli attuali movimenti di resistenza anticoloniale che, particolarmente in Palestina e in Libano, si oppongono allo Stato coloniale di Israele.

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A parte rare eccezioni, i teorici non occidentali del marxismo ricevono poca attenzione. Quando appaiono sul radar dei dibattiti ideologici, il loro lavoro viene sommariamente presentato come una prova dell’universalismo del marxismo piuttosto che come un mezzo per trasformare il marxismo stesso.

Questo è stato per lo più anche il caso del marxista libanese Mahdi Amel. Nato nel 1936, Hassan Hamdan, che avrebbe poi adottato lo pseudonimo di Mahdi Amel, era un membro del Partito Comunista Libanese e al momento della sua uccisione, il 18 maggio del 1987, era parte della dirigenza nazionale del partito.

L’eredità teorica di Amel ha visto una rivalutazione durante le rivolte arabe scoppiate nel 2010/2011. La sua opera è stata oggetto di ulteriore attenzione dopo la traduzione inglese di una selezione di scritti nel 2021. Tuttavia, l’interesse per la sua filosofia marxista e per le sue conseguenze sul modo di comprendere la relazione fra colonialismo e capitalismo è ancora scarso.

Una lettura storico-materialista di Amel dovrebbe contestualizzare il suo contributo concettuale e la sua prassi nel canone teorico del marxismo del XX secolo. Ciò richiederebbe una lunga e approfondita analisi dei presupposti, delle argomentazioni e delle conclusioni della sua filosofia, che le metta a confronto e in contrasto con il marxismo europeo e con le correnti eterodosse o radicali del marxismo emerse dopo la Seconda Guerra Mondiale (come, per esempio, la teoria della dipendenza e il capitalismo razziale). Possiamo fare un piccolo passo in questa direzione esaminando brevemente il suo metodo e il suo impiego nel trattare i temi principali delle lotte di liberazione nazionale seguite al secondo conflitto mondiale, compresa l’attuale lotta per la liberazione della Palestina.

Marxismo, colonialismo e metodo

Amel fu l’alfiere di una “rivoluzione metodologica” all’interno della filosofia marxista che consentisse di comprendere e poi di superare il colonialismo come realtà storica. Ciò lo portò a opporsi all’applicazione meccanica di una versione preconfezionata del pensiero marxista alla struttura sociale coloniale, senza però che questo fosse fatto in nome di una qualche concezione precapitalista assunta falsamente come autentica. Al contempo, rifiutava quelle analisi post-coloniali che buttavano via il bambino del materialismo storico con la sua acqua sporca eurocentrica. Al contrario, Amel operava dialetticamente per edificare una teoria marxista originata dalle realtà sociali colonizzate e che potesse essere impiegata per la loro liberazione socialista che, a suo dire, coincideva con la liberazione dell’umanità tutta.

Amel ha esposto la logica del suo metodo in una serie di saggi e libri in modo via via sempre più dettagliato, per poi impiegarla nell’analisi di un’ampia gamma di fenomeni e forze storiche come il settarismo, l’Islam, l’educazione e la cultura rivoluzionaria. Questi scritti furono concepiti in un dialogo serrato con i dibattiti teorici della sua epoca, ma rimangono rilevanti anche per quelli della nostra.

Sebbene i testi di Amel possano apparire densi e a volte ripetitivi, la sua idea era chiara. Le analisi dedicate da Karl Marx al colonialismo erano accessorie alla sua analisi generale del capitalismo. Dato il suo contesto storico come abitante dell’Europa occidentale e la sua ignoranza delle condizioni socioeconomiche dei paesi colonizzati, Marx non era stato capace di valutare correttamente il colonialismo, così da integrarlo nella sua teoria del capitalismo.

La realtà storica dei popoli colonizzati è speculare rispetto a quella descritta da Marx. Il loro incontro con il capitalismo è stato incidentale rispetto a quello con il colonialismo o è stato mediato da quest’ultimo. La colonizzazione, nelle parole di Amel, “ha tagliato il filo della continuità” della loro storia e “l’ha scossa violentemente”. Dal suo punto di vista, tali scosse hanno investito integralmente tutti i diversi strati dei rapporti di produzione, distruggendo la base materiale della produzione precapitalista e negando al contempo quella dello sviluppo industriale. In altre parole: la differenza tra formazioni sociali capitaliste e coloniali non riguarda solo il livello o la scala della produzione, ma la sua intera struttura.

Per Amel è proprio per questo che il rapporto coloniale – che attraversa tutte le sfere dell’esistenza e non solo quella economica – rappresenta, nelle società colonizzate, la contraddizione fondamentale; ancora, è proprio per questo che il colonialismo rappresenta il “fondamento oggettivo della struttura sociale del paese colonizzato”. Di conseguenza, il colonialismo non termina con la fine dell’occupazione militare o con il raggiungimento dell’indipendenza politica, ma con la rottura totale di questa relazione in un processo di transizione violenta e rivoluzionaria al socialismo.

Seguendo questo ragionamento, l’indagine di Amel è giunta al concetto di modo di produzione coloniale, definito come “la forma di capitalismo strutturalmente dipendente dall’imperialismo nella sua formazione storica e nel suo sviluppo contemporaneo”. Le sintetiche osservazioni di Marx sul colonialismo hanno fornito ad Amel una solida base teorica per sviluppare il proprio modello. In ogni fase, Amel attinse ai commenti rilevanti di Marx, riconoscendoli come i principi fondamentali del ragionamento. Ad esempio, per rafforzare l’idea di un modo di produzione coloniale come fusione di modi di produzione capitalistici e precapitalistici (e quindi distinta da entrambi) operata dalla conquista coloniale, Amel si è basato sulla menzione da parte di Marx di una “fusione” fra modi di produzione e sulla descrizione, da parte di Vladimir Lenin, della coesistenza in un unico spazio sociale di diversi modi di produzione. Questo metodo preservava la logica marxiana e concetti marxiani come formazione di classe, lotta di classe, sfruttamento capitalistico e coscienza di classe, cercando però di chiarire la specifica forma storica che assumono nel contesto coloniale.

Colonialismo e lotta di classe

La teoria di Amel lo ha condotto alla conclusione che il processo di formazione delle classi nel modo di produzione coloniale è caratterizzato dall’assenza di una differenziazione fra classi. A causa dell’inibizione strutturale della grande industria, la borghesia coloniale è di necessità una borghesia mercantile piuttosto che una borghesia industriale.

In questo contesto, i piccoli produttori sono una fazione della piccola borghesia i cui membri si dedicano occasionalmente alla finanza su scala limitata. Questa apparente diversità nell’attività economica non è dovuta a un “eccesso di energia” di questa classe sociale, ma deriva piuttosto dai limiti della concentrazione produttiva.

Simili rapporti economici di produzione ristretti hanno conseguenze politiche. Visto che la sua stessa esistenza come classe è legata alla sua controparte coloniale o capitalista, la borghesia coloniale è incapace di portare avanti una rivoluzione politica e di stabilire una democrazia liberale paragonabile alla forma borghese europea. L’instabilità di governo nei paesi colonizzati è quindi il risultato della stabilità della struttura sociale coloniale, non il riflesso di inclinazioni orientali al regime militare o alla dittatura.

Un caso estremo della mancanza di differenziazione di classe è la fusione di due fazioni sociali: i mercanti urbani legati al commercio estero e i proprietari terrieri legati alla produzione agricola per il commercio coloniale. Questa fusione impedisce l’esistenza di una borghesia nazionale, solitamente associata agli industriali, o di una classe feudale, solitamente associata all’alleanza coloniale.

Allo stesso modo, il processo di proletarizzazione delle masse lavoratrici della colonia – soprattutto contadine – non è mai completo a livello economico o sociale. Data la centralità della terra nella produzione agricola coloniale, che si concentra sull’agricoltura a scopo commerciale e sull’estrattivismo, nel modo di produzione coloniale i contadini sono la classe più sfruttata.

Quando i contadini migrano verso i centri urbani in cerca di lavoro, secondo Amel, raramente sperimentano una trasformazione radicale in termini sia di esistenza che di coscienza di classe. Sebbene siano inseriti in una nuova posizione di classe, che coinvolge la piccola industria di consumo, conservano i loro precedenti legami di classe e mantengono gran parte della loro passata coscienza di classe, passando con facilità tra le due posizioni.

Così Amel descriveva il funzionamento di questo modello in Libano:

Il lavoratore torna al suo villaggio in ogni occasione: per le vacanze, le ferie e i funerali. In questo modo il suo villaggio diventa il suo centro di gravità ed esercita su di lui un richiamo più forte di quello della città. Alla fine, desidera la terra che ha lasciato e chiede di essere sepolto lì, nella patria dei suoi antenati.

Amel insisteva sul fatto che la mancanza di differenziazione di classe non significa che la lotta di classe sia assente nel contesto coloniale, come avrebbero voluto le forze nazionaliste. Né ciò significa che la questione nazionale sia insignificante, come dicevano alcuni marxisti antimperialisti o internazionalisti. Dato che sotto un modo di produzione coloniale determinato dal rapporto coloniale il rapporto di sfruttamento è indiretto, la lotta di classe è diretta contro una struttura di dipendenza e di dominio, non contro un’altra classe sociale. Questo significa, a sua volta, che la rivoluzione socialista nelle società colonizzate è sinonimo di liberazione nazionale:

La lotta per la liberazione nazionale è l’unica forma storica che distingue la lotta di classe nella formazione coloniale. Chiunque non colga questo punto essenziale del movimento della nostra storia moderna e cerchi di sostituire la lotta di classe con la ‘lotta nazionalista’ o riduca la lotta nazionale a una lotta puramente economica perde la capacità di comprendere la nostra realtà storica e quindi anche di controllarne la trasformazione.

Amel ha evitato di far sbandare la sua filosofia verso il determinismo o l’economicismo collocando – nella teoria della lotta di classe – la sua analisi strutturale in una prospettiva storica. Enfatizzava la natura della coscienza di classe come forza storica che consente a una classe di divenire tale e resistere. Sosteneva che prima della Seconda Guerra Mondiale le forme di lotta settoriale ed economica di diverse fazioni delle masse lavoratrici, indipendenti l’una dall’altra, precludevano la loro stessa formazione come classe. Il periodo successivo al 1945 ha visto queste lotte convergere in una più ampia lotta politica per la liberazione dal colonialismo. È in quel momento che la relazione coloniale era diventata reciprocamente costitutiva sia delle società colonizzatrici che di quelle colonizzate. Era necessario staccarsi da questa relazione per trascendere – e quindi distruggere – le strutture sociali capitalistiche e coloniali.

L’ascesa globale del neoliberismo negli anni settanta ha provocato una svolta conservatrice e culturalista in tutta la regione araba. Il lavoro intellettuale di Amel si è così concentrato su questioni pertinenti alla cultura e al ruolo crescente della religione nella politica, in particolare dell’Islam.

A differenza di altri esponenti della sinistra araba o delle correnti laiche come Sadiq Jalal al-Azm e Adonis, il pensiero di Amel non è mai caduto in cliché orientalisti. Egli si opponeva all’ideologia della sconfitta che attribuiva la disfatta araba nella guerra del 1967 contro Israele a fattori culturali piuttosto che a quelli militari; inoltre criticava la borghesia araba per aver presentato i propri fallimenti politici come fallimenti universali della civiltà araba e della sua eredità culturale.

Per Amel, la turath, cioè l’eredità culturale, era di per sé un problema di interpretazione del passato dal punto di vista di un presente coloniale, e non invece un problema precoloniale che continuava ad esistere nel mondo contemporaneo. Allo stesso tempo, però, Amel evitava di assumere prospettive definitive nei confronti dell’Islam come quelle che si trovano nelle polemiche laiche o comuniste e che interpretano l’Islam come intrinsecamente reazionario.

L’Islam e il pensiero rivoluzionario

Negli anni ottanta, la svolta culturalista ha portato all’emergere di quello che Amel definitiva il “pensiero quotidiano”. Amel metteva in guardia contro questo nuovo discorso che depoliticizzava la lotta sociale ignorando il ruolo della geopolitica, delle forze strutturali della storia e degli interessi di classe come motivi dei conflitti confessionali o regionali.

Amel criticò le diverse manifestazioni di questa nuova tendenza, alcune delle quali furono da lui identificate come correnti nichiliste, oscurantiste o borghesi islamizzate. La sua denuncia di quest’ultima corrente non lo portò a liquidare l’Islam come forza ontologicamente regressiva in tutte le fasi della storia. A differenza di molti studiosi della storia intellettuale islamica, che interpretavano la contraddizione primaria nell’Islam – o in qualsiasi altra religione – come contraddizione tra fede e ateismo, o tra pensiero religioso e pensiero razionale, Amel individuò una linea di demarcazione tra coloro che si sottomettono al potere e coloro che lo sfidano.

Il canone tradizionale dei filosofi islamici precapitalisti ne è un esempio. La classificazione convenzionale associava il pensiero progressista alla ragione, esemplificata nella figura di Ibn Rushd (Averroè), mentre tacciava di conservatorismo quelle filosofie che elevavano la religione o la fede al di sopra della ragione, esemplificate nella figura di al-Ghazali. Amel sosteneva come tale classificazione fosse semplicistica e si basasse sul presupposto che la ragione fosse un monolite.

Si potevano anche rintracciare trovare singoli filosofi, come per esempio Ibn Khaldun, che si erano appellati sia al ragionamento scientifico così come al ragionamento giuridico salafita. Queste forme contraddittorie di ragione rimanevano all’interno di una logica o di un paradigma religioso, il che significava che non erano mai completamente antitetiche l’una all’altra. Di conseguenza, il pensiero sovversivo, espresso nell’Islam sufi illuminista, assumeva la forma di un rifiuto totale della ragione.

Per Amel, la contraddizione principale non era tra religione e vita materiale, ma tra due concezioni di religione: spirituale (sufi) e temporale (giuridica). L’Islam spirituale, tuttavia, non fu atemporale nel senso metafisico del termine. Forzato dal processo storico, l’Islam si fece temporale e, per estensione, politico. Il sufismo (almeno in alcune delle sue diramazioni) nega quell’istituzionalizzazione dell’Islam, che ne ha fatto un apparato autoritario.

Le diverse manifestazioni dell’Islam dimostrano che esso non è mai stato un’unica forza. È stata la dimensione materiale dell’Islam – piuttosto che quella ultraterrena – a determinarne il carattere reazionario o rivoluzionario.

Ciò è vero nonostante, nell’analisi di Amel, esso sia stato prevalentemente al servizio degli interessi delle classi dominanti. Amel infatti individuò nella società islamica precapitalista delle notevoli eccezioni a questa regola, tra cui la rivolta contro il terzo califfo “ben guidato” ‘Uthman Ibn Affan nel periodo successivo alla morte di Maometto, nonché una fase limitata del dominio qarmata in Arabia. Tra gli esempi moderni citati da Amel di come l’Islam abbia fatto parte di una lotta rivoluzionaria nell’epoca della liberazione nazionale ci sono la guerra d’indipendenza algerina e la resistenza armata contro Israele.

Rivoluzione, liberazione e causa palestinese

Lo studio della rivoluzione algerina e della resistenza a Israele fa luce sulle particolarità della lotta di classe sotto il colonialismo che include il ruolo di fattori non economici come il razzismo e l’identità culturale. Nel caso dell’Algeria, Amel notava che la stragrande maggioranza dei coloni europei, siano essi artigiani, contadini, borghesi o operai, si oppose alla rivoluzione per la liberazione nazionale. La classe operaia politicizzata non faceva eccezione. Il quartiere operaio di Algeri di Bab el-Oued era stato soprannominato il “quartiere rosso” per essere stato una base popolare del Partito comunista algerino. Tuttavia, dopo lo scoppio della guerra d’indipendenza divenne “un rifugio del razzismo europeo” e “centro del terrorismo fascista europeo contro la rivoluzione”.

La stessa logica anticoloniale si applica alla teorizzazione della lotta di classe in Palestina. Il cosiddetto sionismo operaio era un’ideologia razziale complice dell’oppressione degli operai e dei contadini palestinesi e come tale non poteva essere definito socialista. Al contrario, Amel considerava la lotta palestinese per la liberazione dal colonialismo come una forza della lotta di classe rivoluzionaria.

L’incapacità dei partiti comunisti arabi di riconoscere questa distinzione e la loro volontà di seguire ciecamente le direttive di Mosca avevano portato la dirigenza di questi partiti a sostenere la spartizione della Palestina del 1948. Avevano legittimato questa decisione con una rappresentazione semplicistica del conflitto come una lotta tra lavoratori, sia arabi che ebrei, e una borghesia mercantile e terriera, sia araba che ebrea. Questo aveva causato la perdita di sostegno popolare per il movimento comunista nelle società arabe.

Nel caso del Libano, la revisione della posizione del Partito comunista a favore della divisione alla fine degli anni sessanta e la sua alleanza con il movimento di liberazione palestinese hanno costituito una forza di radicalizzazione con un impatto sulla lotta di classe nel Libano stesso. Dopo l’invasione israeliana del 1982, Amel ridicolizzò gli opinionisti di sinistra che minimizzavano l’importanza del successo della resistenza armata contro l’occupazione israeliana in nome del rafforzamento dello Stato centrale libanese al tempo dell’egemonia destrorsa dei falangisti.

L’atteggiamento di Israele nei confronti delle fazioni politiche libanesi e palestinesi in ultima istanza era ed è tutt’oggi determinato dalla decisione di quei movimenti di adottare o rifiutare strategie di liberazione nazionale, compresa la resistenza armata, indipendentemente dalla loro ideologia laica o religiosa. Secondo Amel, per Israele e i suoi alleati il significato della resistenza armata deriva dalla centralità oggettiva della relazione coloniale nel determinare il carattere della lotta di classe in un contesto coloniale.

A differenza di molti esponenti della sinistra del suo tempo, Amel valutò attentamente le forze di resistenza islamiste in relazione a questa contraddizione strutturale, senza ignorare il ruolo della coscienza politica (e quindi soggettiva) nell’orientamento di questa lotta verso un orizzonte socialista o progressista. Nel 1984, quando le forze confessionali islamiste si ribellarono contro le forze confessionali cristiane filo-israeliane a Beirut, Amel identificò il significato rivoluzionario oggettivo della vittoria militare, pur sottolineando come fosse incerto se questa vittoria avrebbe portato alla fine del confessionalismo o alla sua riproduzione:

O vanno contro la forma confessionale reazionaria della loro coscienza ideologica, cioè in direzione di un cambiamento radicale del sistema politico confessionale della borghesia dominante, o si allineano a questa stessa coscienza confessionale reazionaria – (ma contro gli interessi di classe delle loro fazioni di lavoratori) – e si orientano a una riforma confessionale di questo sistema. In quest’ultimo caso, il sistema riprenderebbe fiato in un movimento che rinnoverebbe la sua crisi e, di conseguenza, le condizioni per una guerra civile.

In Palestina non c’è una crisi confessionale simile a quella del Libano. Ma oggi le principali forze di resistenza armata in Palestina e in tutta la regione sono di ideologia islamista. Come Amel ha mostrato in altri testi, analizzare questa resistenza senza mettere al centro la relazione coloniale è un errore metodologico che maschera il ruolo rivoluzionario di questa resistenza in quanto ultima fase della guerra di liberazione nazionale.

In altre regioni del mondo la congiuntura globale della liberazione nazionale del ventesimo secolo è forse passata. Tuttavia, la realtà sociale coloniale dei palestinesi rimane immutata, così come il loro diritto a resistere con tutti i mezzi necessari. Un’analisi marxista che ignora questa contraddizione primaria è destinata a ripetere l’errore dei primi comunisti arabi e, in questo caso, contrariamente alla famosa formulazione marxista, la seconda ripetizione della storia sarà tragica quanto la prima.

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