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Il significato dell’antimperialismo oggi. Intervista a Tariq Ali

Stathis Kouvelakis, Tariq Ali

Tariq Ali, figura emblematica della sinistra radicale e della generazione del 1968 in Gran Bretagna, scrittore e direttore della New Left Review, ha appena pubblicato un nuovo volume della sua autobiografia intitolato You can’t please all. Memoirs 1980-2024 (Verso 2024), che segue l’ormai classico Street Fighting Years. An Autobiography of the 1960s. (Verso, prima edizione, 1987).

Queste nuove memorie di Ali riflettono la sua prolifica attività intellettuale e politica e approfondiscono una straordinariamente ampia varietà di temi. Si va – tra l’altro – dall’America Latina al Pakistan, dall’Unione Sovietica della Perestrojka alla Gran Bretagna della Thatcher, dalla sua storia familiare agli interventi culturali in TV e teatro, dal cricket nell’era postcoloniale alla lettura politica di Don Chisciotte. 

Il racconto di Ali è lucido, privo di nostalgia o della malinconia tanto diffusa nei circoli accademici di questi tempi, una testimonianza del profondo cambiamento che il mondo ha subito dopo il riflusso del ’68 globale. Riflettendo sul proprio percorso, esplora i modi in cui rivoluzionari, movimenti di massa e intellettuali hanno risposto alla nuova situazione.

L’intervista – rivista e completata da Ali stesso – è stata condotta da Stathis Kouvelakis il 5 dicembre 2024 a Londra e pubblicata nella rivista francese Contretemps. Ali si concentra su quello che emerge come filo conduttore della sua intera vita politica: l’antimperialismo e il suo significato nel mondo post-Guerra Fredda del capitalismo neoliberale globalizzato sotto l’egemonia statunitense.

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Dagli anni Sessanta a oggi: l’antimperialismo e la sinistra

L’antimperialismo ha dominato tutta la tua vita, dalla prima azione politica – una manifestazione nelle strade di Lahore dopo la morte di Patrice Lumumba il 17 gennaio 1961 – fino agli anni Duemila, quando, dopo un lungo periodo dedicato principalmente al lavoro culturale, sei tornato alla politica attiva con campagne contro la guerra e l’imperialismo. Sei sempre stato un convinto internazionalista, ma il tuo internazionalismo ha un taglio decisamente antimperialista, giusto?

Penso che sia vero. Vivendo in Pakistan, fin da piccolo ero completamente ossessionato dalla lettura di tutte le riviste che arrivavano in casa. Si trattava principalmente di riviste comuniste statunitensi, Masses and Mainstream, Monthly Review, poi britanniche, New Statesman, Labour Monthly, fondamentalmente letteratura del Partito Comunista e solo molto tardi la New Left Review. Li leggevo perché ero interessato alla situazione postcoloniale. In Pakistan stavamo attraversando una fase postcoloniale, che non sembrava diversa da quella degli ultimi giorni dell’imperialismo britannico. Tutto era gestito dagli inglesi, che poi hanno passato il testimone agli statunitensi.

Quando lessi della morte di Lumumba, mi sono davvero infuriato. Convocammo una riunione all’università e dissi: “Non possiamo non scendere in strada”. Ma, secondo una vecchia legge imperiale britannica, manifestare insieme a più di cinque persone era punibile con una pesante detenzione. Ciononostante decidemmo di scendere in strada e si presentarono circa duecento persone. Spiegammo chi era Lumumba e loro risposero: “Stiamo marciando verso il consolato degli Stati Uniti perché queste sono le persone che lo hanno fatto uccidere”. Un ragazzo chiese: “Abbiamo delle prove?” L’intera sala scoppiò a ridere. Nessuno dubitava che fossero stati gli americani. Tornammo dall’ambasciata e ci sentimmo così forti e coraggiosi che iniziammo a scandire slogan contro la dittatura militare in Pakistan – e l’intero Paese rimase sbalordito: chi sono questi ragazzi così pazzi?

Fu una manifestazione memorabile, perché colse tutti di sorpresa. Non c’era stata una sola manifestazione per Lumumba in Occidente o in India, in Paesi in cui sarebbe stato legale, con grandi partiti comunisti. Mi capita ancora oggi di incontrare persone che mi dicono: “Mi ricordo la manifestazione per Lumumba a Lahore”. Chiedo: “C’eri anche tu?” E mi rispondono: “Sì, sì, certo…” Quindi, sembra che il numero delle persone che hanno partecipato alla manifestazione sia aumentato a 50.000! [ride]

Poi c’è stata la rivoluzione cinese. L’intero movimento progressista di sinistra, sindacati e movimenti contadini in prima linea, non smettevano di parlare della Cina. Quando ero molto giovane, i miei genitori mi portarono alla riunione del Primo Maggio e si parlava solo di Cina, lo slogan era “prenderemo la strada cinese, compagni, prenderemo la strada cinese”. 

Quindi, i concetti di lotta e rivoluzione mi sono stati insegnati molto presto, e non sarebbe successo se fossi cresciuto in una parte diversa della mia famiglia. È stato il fatto che i miei genitori fossero comunisti e che persone di quell’ambiente venissero regolarmente a casa nostra – poeti, radicali – a spingermi su quella particolare strada. Ricordo che quando i francesi furono sconfitti a Điện Biên Phủ, perfino persone apolitiche festeggiarono. Un cugino di mia madre, un produttore cinematografico, la chiamò e le disse: “Oggi è nato mio figlio, l’ho chiamato Ho Chi Minh”. Mia madre disse: “Se anche queste persone festeggiano Điện Biên Phủ, forse non siamo così sfortunati in questo Paese”. Si trattava di un sentimento semi-nazionalista, ma fortemente antieuropeo, antiamericano e antimperialista, tra la gente in generale.

Ciò che è notevole nel tuo caso, provenendo dal Sud globale, non è il fatto che tu sia diventato un antimperialista negli anni ’60-’70, ma che lo sia rimasto anche dopo. Da quando hai ricominciato a essere politicamente attivo nel mondo che seguì la caduta dell’Unione Sovietica, ti sei battuto contro le nuove guerre imperialiste, agendo e connettendoti con varie esperienze, in particolare in America Latina, di resistenza all’imperialismo statunitense. E questo in netto contrasto con la maggior parte della sinistra che si oppone al neoliberismo, ma che ha anche abbandonato l’antimperialismo. 

Metti in luce una contraddizione interessante. Ho aderito nel 1968 alla Quarta Internazionale (QI)1 perché era antimperialista e internazionalista, e queste erano le sue caratteristiche più attraenti. Sono rimasto piuttosto scioccato quando hanno cominciato ad allontanarsi da questi valori.

Ricordo di aver incontrato Daniel Bensaïd in un caffè a Parigi e mi disse: “Si avvicina il quarantesimo anniversario del 1968, cosa dobbiamo fare? Tu hai sempre buone idee su come organizzare grandi celebrazioni”. Gli dissi: “Daniel, voi stessi state abbandonando l’internazionalismo come lo intendevamo una volta. Nel 1968 facevate azioni per ribattezzare le strade del Quartiere Latino in Via dell’eroico Vietnam”. E lui replicò: “Ok, cosa proponi allora?”. 

Io dissi: “Una grande celebrazione dei cambiamenti in Sud America. Chiamiamo gli zapatisti, non è impossibile che venga Hugo Chávez. Avremo Evo [Morales] dalla Bolivia. Avremo anche la sinistra progressista di questo Paese, alcuni continuano a seguire questo percorso. Non sono rivoluzionari come lo eravamo noi, ma sono socialdemocratici di sinistra. Sono stati spinti al potere da movimenti di massa”. Daniel mi rispose: “È un’idea molto interessante, ma non credo che nessuno tra gli anticapitalisti la sosterrà. Non perché siano ostili di per sé, ma semplicemente non li interessa”. Dissi: “Questo è profondamente scioccante”. E lui: “Posso immaginare che per una persona come te sia ancora più scioccante”. Daniel era consapevole di cosa stava accadendo, mentre altri compagni dei vecchi tempi continuavano a negarlo.

All’epoca della guerra in Iraq, ebbi una grande discussione con Catherine Samary, della Ligue Communiste Révolutionnaire [sezione francese della QI dal 1974 al 2009, quando si ribattezzò Nouveau Parti Anticapitaliste, ndt]. Naturalmente era contraria alla guerra. Ma le chiesi: “Come ti spieghi il fatto che in tutti i grandi Paesi europei ci sono state gigantesche manifestazioni contro la guerra il 15 febbraio 2003 – milioni a Londra, Roma e a Madrid, persino i tedeschi sono arrivati a manifestazioni con 100.000 persone – ma voi, in Francia, non siete riusciti a fare nulla?”.

Le manifestazioni ci sono state, a Parigi i numeri erano simili a quelli della Germania. 

Erano relativamente piccole, questo era il mio punto fondamentale. L’argomentazione di Catherine era che l’allora presidente Jacques Chirac si è era opposto alla guerra, e per questo la gente si sentiva rappresentata. Io dissi: “Ma aspetta. De Gaulle si oppose alla guerra del Vietnam. Questo non vi ha fermato. È un problema strutturale fondamentale, quello che è successo all’intellighenzia e alla sinistra francese”. Un po’ più tardi, quando l’edizione francese del mio libro sulla guerra in Iraq uscì con La Fabrique, con Éric Hazan giravo per le librerie di Parigi e abbiamo tenuto delle conferenze. A un evento dissi: “Ho l’impressione che una parte dell’intellighenzia francese, in particolare quella del Partito Socialista e dei Liberali, avrebbe davvero voluto partecipare a questa guerra”. Éric mi interruppe e disse: “Su questo hai perfettamente ragione”.

Questa evoluzione in Francia è stata molto deludente. Avevamo un’enorme fiducia nella Ligue Communiste [partito trotzkista fondato nel 1969 che poi, nel 1974 appunto, si trasformò in Ligue Communiste Révolutionnaire, ndt] e nella sua spinta negli anni Sessanta e Settanta. È un po’ ironico che l’ala “capitalista di Stato” del movimento trotskista [il Socialist Workers’ Party britannico (SWP) e la sua rete internazionale, l’International Socialist Tendency (IST)] si sia rivelata molto più lucida, sia sulla Jugoslavia che sull’Iraq e ora sull’Ucraina. Si sono opposti con forza alla NATO e agli Stati Uniti. Una delle ragioni per cui eravamo soliti criticare il gruppo IST era proprio la sua mancanza di internazionalismo.

Ma se si guarda ora, sono le correnti mandeliste [aderenti alla corrente di Ernest Mandel, ndt] che sono state giudicate insufficienti e sono in un certo senso scomparse. Mentre senza la manciata di trotskisti dell’SWP come Lindsey German e John Rees, non avremmo potuto costruire la campagna contro la guerra. La Gran Bretagna è l’unico Paese al mondo in cui la Stop the War Coalition è sopravvissuta, anche in tempi difficili. Non l’abbiamo lasciata affondare.

C’è ovviamente una relazione tra questa persistenza e le dimensioni del movimento a sostegno della Palestina in Gran Bretagna.

Senza dubbio. Per quanto riguarda la Palestina, si è sempre tenuta almeno una manifestazione all’anno; quindi quando è arrivata [l’indignazione post 7 ottobre 2023, ndt], il movimento progressista britannico era pronto. Queste, sono le persone che organizzano le manifestazioni per la Palestina, poi la Palestine Solidarity Campaign. È stato fantastico, le mobilitazioni sono cresciute quotidianamente. Ma li avevo avvertiti che prima o poi si sarebbero sgonfiate e che avremmo dovuto pensare ad altre azioni. E poi sono iniziate spontaneamente altre azioni da parte di una nuova generazione, al suo primo contatto con la politica, che non ci saremmo mai aspettati. Queste persone non sono attratte dai piccoli gruppi e dal vecchio modo di fare le cose.

E qui arriviamo al problema: mentre in Francia, a livello politico, c’è Jean-Luc Mélenchon, in Gran Bretagna non c’è nessun altro che Jeremy Corbyn. Le sue debolezze come leader di sinistra vengono a galla. Rimane attaccato al labour anche quando ne viene espulso. 

Potresti commentare la seguente dichiarazione di un altro leader trotzkista greco, Michael Raptis, noto anche come Pablo. Verso la fine della sua vita, disse al rivoluzionario e teorico messicano Adolfo Gilly: “Il significato più profondo del XX secolo è stato questo immenso movimento di liberazione delle colonie, dei popoli oppressi e delle donne, non la rivoluzione del proletariato, che però è sempre stato il nostro mito e il nostro Dio”. Sei d’accordo con questa posizione?

In parte. È quello che Ernest Mandel a volte chiamava – in relazione a quelli che chiamava “centristi” – il culto dei faits accomplis, dei fatti compiuti. 

Ma, come dici nel tuo libro, lui accusava proprio la New Left Review di fare questo.2

Sì, e aveva ragione. Tuttavia, in Portogallo siamo arrivati molto vicini a un epilogo rivoluzionario, a mio avviso, molto più vicino che in Francia nel maggio-giugno 1968, perché lì il Partito Comunista Francese era un enorme ostacolo, mentre in Portogallo il Partito Comunista, che ci piacesse o meno, era molto più a sinistra. Ma è stato completamente aggirato. Ricordo grandi manifestazioni di operai, soldati e contadini in Portogallo in cui cantavano “rivoluzione, rivoluzione, socialismo”.

Poi arrivò Mario Soares, il leader socialdemocratico, e disse: “Sì, avremo il socialismo. Ma vogliamo il socialismo dell’Europa dell’Est? No. Vogliamo il socialismo dei russi? No. Allora perché il nostro caro compagno Alvaro Cunhal [segretario generale del Partito Comunista Portoghese, ndt] continua a parlare di dittatura del proletariato? Ci siamo liberati di una dittatura e loro vogliono portarne un’altra su quel modello”. Cunhal non fu mai capace di rispondere. Ideologicamente, siamo stati sconfitti in Portogallo.

Ernest Mandel fu scosso perché era molto entusiasta, anche se nella QI avevano sottovalutato il Portogallo perché Mandel era convinto che la rivoluzione sarebbe scoppiata prima in Spagna. Alcuni di noi che conoscevano meglio la Spagna gli dissero: “Ci sarà un grande compromesso in Spagna”. Lui rispose: “Vi sbagliate. Ci sono le tradizioni del POUM [Partito Operaio di Unificazione Marxista], dell’anarchismo, etc.” I compagni baschi [dell’ETA-VI, che si sono uniti alla QI], molto lucidi, dicevano che la transizione post-franchista sarebbe stata una buona cosa perché avrebbero avuto la legalità, ma che non sarebbe cambiato nulla. Il Portogallo colse la  QI completamente di sorpresa.

Quindi, per te, il XX secolo è stato ancora il secolo delle occasioni rivoluzionarie mancate, anche in Europa o in generale nei Paesi capitalisti avanzati.

Sì, credo che sia stato così fino al 1975, la sconfitta della rivoluzione portoghese è stata il fattore decisivo. 

Più del colpo di Stato in Cile?

Il colpo di Stato in Cile ha avuto, ovviamente, un grande impatto. Ma c’era una grande simpatia per il Cile, anche nei giri borghesi, non c’era la sensazione che la rivoluzione fosse stata sconfitta. Ricordo che Hortensia Allende, la moglie di Salvador, fu accolta dall’allora primo ministro britannico e leader del partito laburista Jim Callaghan che la abbracciò in pubblico. Si rivolse alla conferenza del Partito Laburista dicendo: “Il compagno Allende è stato assassinato”, e l’intera conferenza rimase in silenzio. Fidel Castro aveva capito benissimo che ormai eravamo stati sconfitti per le generazioni a venire, ma non era questa la sensazione che avevamo in Europa. In Europa, il test cruciale era il Portogallo, e gli statunitensi lo sapevano. La NATO fece arrivare del denaro a Soares e al suo partito riformista. 

L’imperialismo oggi: un unico impero globale statunitense?

Veniamo ora al mondo post-1990. La tua posizione è che esiste un solo impero globale, quello statunitense. Come definiresti allora la Cina e la Russia? Sono potenze imperialiste? Possono essere messe sullo stesso piano degli Stati Uniti? Questa è la posizione di tutta una parte della sinistra radicale di oggi, che fa un parallelo tra la situazione attuale e la configurazione inter-imperialista del periodo precedente la Prima Guerra Mondiale. Le stesse persone aggiungono che, pensando che un unico imperialismo sia di gran lunga quello dominante, e quindi più pericoloso per qualsiasi governo progressista, si commette il peccato di “campismo”.

Sono stato abbastanza chiaro su questa questione ne Lo scontro dei fondamentalismi. Chi è stato il grande vincitore del crollo dell’Unione Sovietica e del passaggio della Cina alla via del capitalismo? Gli Stati Uniti. Il capitalismo statunitense è rimasto il più forte, non solo militarmente, ma anche economicamente e tecnologicamente. Non è un caso che internet sia nato sulla costa occidentale degli Stati Uniti e non su quella della Cina. Il dominio ideologico degli Stati Uniti è stato praticamente incontrastato. Dovevamo sfidarlo, ovviamente, ma non saremmo stati in grado di farlo se avessimo smesso di dire che gli USA erano una potenza imperiale.

Non ha senso dire che, poiché l’Unione Sovietica è implosa e la Cina è diventata capitalista, non esiste più una potenza imperiale. Ero fortemente contrario a questa visione, ma le persone erano molto riluttanti a contrastarla. Alle conferenze accademiche, quando parlavo di “imperialismo statunitense”, c’era un leggero sussulto, cosa che indicava il fatto che stavamo perdendo tutto quel mondo. No, non avete perso quel mondo, ne avete perso un altro. Quando sono stato in Unione Sovietica tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, parlando con gli intellettuali del partito di alto livello, ciò che li faceva impazzire era che Mikhail Gorbaciov non riusciva a capire che sarebbero stati schiacciati da questi bastardi se non avessimo avuto qualcosa in cambio. Yevgeny Primakov in particolare temeva che Gorbaciov stesse preparando una capitolazione.

La mia opinione sulla Cina e sulla Russia è che sono essenzialmente nazionaliste e che difenderanno il loro nazionalismo e l’autodeterminazione nazionale, o la sovranità nazionale se la vuoi chiamare così. La Russia dice che questo significa il non aver la  NATO ai suoi confini o il suo tentativo di dividerla in piccoli pezzi. E la Cina dice cose simili: lasciateci in pace, non provocateci con Taiwan. Gli USA avrebbero potuto farlo, erano lì ad un passo, ma hanno fatto esattamente il contrario.

Perry Anderson e io ne abbiamo discusso in privato e la mia opinione è che il dibattito tra Karl Kautsky e Lenin sulle contraddizioni tra ultra-imperialismo e inter-imperialismo sembra essersi risolto a favore di Kautsky. Per la maggior parte del XX secolo, Lenin ha avuto più o meno ragione, ma ora, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, sembra che avremo un ultra-imperialismo in qualche forma in cui tutte le potenze europee capitoleranno più o meno. Non c’è alcuna possibilità di reagire. L’ho sentito ancora più forte durante gli attacchi di Israele contro la Palestina.

Negli anni ’90, la Russia e la Cina erano disposte ad assecondare l’ultra-imperialismo statunitense e degli europei, ma sono troppo grandi per essere inghiottiti come lo è stata l’Europa, soprattutto la Cina. C’è stato un grande dibattito all’interno dell’entourage economico cinese sull’opportunità di cedere al modo neoliberista di passare al capitalismo. Poi c’è stata una grande reazione dall’interno del Partito Comunista Cinese che ha detto: “No, non possiamo fare così, non possiamo commettere l’errore di Gorbaciov”. Deng Xiaoping aveva consigliato a Gorbaciov: la perestrojka [ristrutturazione] va bene, ma non si può fare la perestrojka in modo corretto a meno di tralasciare la glasnost [apertura e trasparenza]. Da un punto di vista puramente cinico, non aveva poi così torto.

L’intera strategia degli Stati Uniti, dei pensatori e degli specialisti militari che dirigono il Paese, è che l’unico modo per mantenere l’egemonia è spezzettare tutto in piccoli pezzi, in modo che non emerga alcun Paese che possa sfidarli da qui alla fine dell’umanità. Ed è quello che gli USA hanno sempre fatto ovunque si guardi. È quello che hanno fatto in Jugoslavia, anche se non è successo consapevolmente. Bill Clinton disse pubblicamente che la guerra in Jugoslavia era nell’interesse degli USA. E hanno fatto lo stesso in Medio Oriente: dividerlo, separare i tre Paesi che avevano enormi eserciti che minacciavano Israele e l’egemonia statunitense nella regione. 

Quindi non vedi l’ascesa e l’espansione economica della Cina su scala globale trasformarsi in un nuovo imperialismo.

Potrebbe, se gli Stati Uniti li provocano. Non nego questa possibilità. Gli americani avevano due grandi piani per destabilizzare la Cina: Il Tibet e Taiwan. Il Tibet è ora integrato grazie a un mega afflusso di immigrati cinesi Han [gruppo etnico maggioritario della Cina, ndt]. Lo hanno fatto anche modernizzando il Tibet e rendendo disponibili molti posti di lavoro ai tibetani. Il risultato è sorprendente: si tratta di un’operazione classica, in stile imperiale, ma non come quella che fecero gli inglesi quando conquistarono l’India. Stanno costruendo infrastrutture, e non solo treni e altre opere volte ad ampliare le rotte di approvvigionamento.

Per quanto riguarda Taiwan, è improbabile che i tentativi occidentali di incoraggiare eventuali provocazioni da parte del  governo di Taipei funzioni, poiché il commercio tra le due regioni è intenso e qualsiasi avventura armata sarebbe totalmente controproducente per Taiwan e i suoi cittadini. Come si evolverà la situazione quindi? È difficile da prevedere. Ma se gli USA cercano di spezzare la Cina in piccole parti, quest’ultima potrebbe fare qualsiasi cosa. Non si accontenterà.

Veniamo ora all’Ucraina, un altro elemento cruciale degli ultimi anni. Non si tratta di sostenere il regime di Vladimir Putin o di pensare che sia in qualche modo un regime amico della sinistra. Immagino che tu sia d’accordo con l’analisi di Susan Watkins sulla guerra in Ucraina, che la vede come una combinazione di tre tipi di guerre. Ispirandosi all’analisi di Mandel sulla Seconda Guerra Mondiale, la vede come una guerra inter-imperialista, una guerra nazionale contro un’invasione straniera e una guerra civile che colpisce in particolare il Donbass. L’elemento più controverso è probabilmente la dimensione inter-imperialista, ovvero la responsabilità dell’imperialismo statunitense nel provocare questa guerra attraverso la costante espansione della NATO verso est e attraverso l’utilizzo dell’Ucraina per condurre una guerra per procura volta a indebolire la Russia.

Questo ci riporta a ciò che i compagni sovietici mi dicevano strappandosi i capelli, cioè che Gorbaciov stava dando via tutto senza nemmeno un trattato scritto, che le precedenti semi-capitolazioni hanno sempre avuto un trattato, e i tedeschi erano pronti anche a offrirne uno. Gli statunitensi no. Loro hanno dato solo assicurazioni verbali – non un passo verso est – come spiegato nel libro di Mary E. Sarotte3. Lei è una liberale di destra, ma il suo libro fornisce un solido resoconto di come operarono gli statunitensi e di ciò che fecero fin dall’inizio, quando Gorbaciov chiese in modo mite “cosa otteniamo in cambio della consegna della Germania Orientale?”. Gli USA gli assicurarono che con la NATO non avrebbe fatto un solo passo verso est. E Gorbaciov ci ha creduto. Questo avrebbe dovuto essere sancito in un trattato, che avrebbe potuto essere disatteso, ovviamente, ma che comunque avrebbe costituito una base legale.

Ma poi iniziarono a muovere regolarmente la NATO verso est fino ad arrivare in Ucraina. William J. Burns, oggi a capo della CIA, è stato ambasciatore in Russia tra il 2005 e il 2008. Quando è tornato negli Stati Uniti, scrisse un documento a l’allora Segretaria di Stato Condoleezza Rice dicendo molto chiaramente che l’unica cosa che non avrebbero dovuto provocare, e che la Russia, indipendentemente dal presidente in carica4, considerava una linea rossa, era l’incorporazione dell’Ucraina nella NATO. Ora, naturalmente, dice che li aveva avvertiti in privato e che i fatti gli hanno dato ragione.

Personalmente, non pensavo che Putin avrebbe invaso l’Ucraina. Ha colto tutti di sorpresa. Certo, lo abbiamo criticato fortemente e dovrebbe ritirarsi. Ma l’unico modo per uscire dalla guerra ora è attraverso i negoziati. Uno dei suoi consiglieri ha raccontato a un mio amico: “Putin ha mantenuto il segreto assoluto. Ma quando in seguito gli ho chiesto delle perdite che stavano aumentando mi ha detto: ‘Non essere troppo critico con me. Siamo l’ultima generazione che può affrontare gli americani. Se non l’avessi fatto io, la generazione successiva non l’avrebbe mai fatto. Loro stessi vivono per metà in quel mondo’”.

Come rispondi a un argomento morale che ha un certo riscontro, anche a sinistra: se il popolo ucraino vuole entrare nella NATO e far parte dell’Occidente, perché dovremmo negargli il diritto di farlo? Questo non andrebbe contro l’idea di una loro autonomia e riprodurrebbe una sorta di atteggiamento coloniale nei confronti degli ucraini? Alcuni suggeriscono che questo è il peccato della sinistra radicale occidentale, che non tiene conto dei popoli dell’Europa orientale e non prende sul serio il loro desiderio di liberarsi dalla dominazione russa. 

La mia risposta è che le ultime elezioni in Ucraina prima della “rivoluzione di Maidan” hanno riportato un candidato apertamente filo-russo, Viktor Yanukovych, a capo del Paese. Quel presidente è stato in realtà rimosso da una “rivoluzione colorata” statunitense, cioè un cambio di regime da loro organizzato. Chi crede che questi Paesi sosterranno mai qualcosa di simile a una vera democrazia? Putin ha distrutto le sue stesse possibilità, perché anche chi era molto favorevole alla Russia ora non vuole più avere a che fare con lui.

Quindi, è un disastro. In generale sono favorevole ai referendum, ma che siano aperti. Sciogliamo tutta la presenza militare nel Paese, disarmiamo completamente l’ala fascista dell’esercito ucraino. Altrimenti, come si possono creare le condizioni adeguate per un referendum? Gli ucraini potrebbero votare a favore dell’adesione alla NATO, ma ne dubito dato che, come indicano i tanti rapporti e articoli scritti da Volodymyr Ishchenko, il malcontento è cresciuto.

Si parla molto dell’ascesa del Sud globale come attore indipendente sulla scena mondiale. Questo è stato confermato dalla divisione tra Nord e Sud che abbiamo visto sia sulla questione dell’Ucraina che su quella della Palestina. Ma questo Sud globale non è omogeneo: l’India di Narendra Modi, ad esempio, si è rifiutata di applicare sanzioni alla Russia, ma allo stesso tempo è molto favorevole a Israele. Nel complesso, ritieni che ci stiamo muovendo verso un mondo multipolare? Se sì, c’è qualcosa di positivo in questo cambiamento, nonostante il fatto che tutte queste potenze emergenti del Sud globale siano solo Paesi capitalisti?

Direi che è un tentativo di passare a un mondo multipolare, cosa che non sarebbe mai avvenuta senza la Cina. È un segno che è seriamente intenzionata a respingere almeno i piani statunitensi. Ma non penso che sia così per il Sud globale in quanto tale. Possono ovviamente opporsi sulla Palestina, perché è talmente ovvio quello che gli USA e l’Occidente stanno facendo. Ma dubito molto dell’idea che lo farebbero su tutto. La maggior parte delle forze borghesi in questi Paesi può essere comprata. Non è tanto una questione di ideologia quanto di chi paga più soldi. Lo stesso vale per il Pakistan. L’India è ovviamente diversa, ma anche in Brasile sono state esercitate delle pressioni su Lula affinché si ritirasse dalla sua posizione iniziale, che era fortemente contraria agli Stati Uniti e a sostegno dei palestinesi.

Lula era solito dire che lo avevano preso per pazzo. Una volta è stato ingannato da Barack Obama, che lo ha lusingato, e lui ci è cascato. Ha detto: “Non succederà mai più”. Non è una questione personale. Si tratta di interessi americani, del sostegno americano a Jair Bolsonaro, del coinvolgimento americano nel golpe parlamentare contro Dilma Rousseff. Quindi, non è tornato indietro, ma ha giocato con loro. È anche preoccupato per il fatto che il bolsonarismo è ancora dominante nell’esercito.

Penso che ogni Paese stia giocando secondo i propri interessi. L’opposizione agli Stati Uniti non è un loro tema prioritario. Ne abbiamo avuto una versione migliore negli anni ’60 con la Conferenza di Bandung [conferenza tenutasi a Bandung, in Indonesia, nel 1955, che segnò l’affermazione del “Terzo Mondo” e del movimento dei non allineati sulla scena mondiale, ndt].

Ma allora esisteva un progetto sociale diverso.

Sono d’accordo, ora non c’è alcun progetto sociale, ed è per questo che è così facile da smantellare se gli statunitensi lo volessero veramente fare.

La causa palestinese: un nuovo Vietnam?

Il movimento a sostegno della Palestina è stato, a mio avviso, la dinamica più promettente in Occidente nell’ultimo periodo. Possiamo fare un paragone tra questo e il movimento contro la guerra del Vietnam negli anni Sessanta, di cui tu stesso sei stato protagonista? Pensi che il sostegno quasi unanime dei governi occidentali al genocidio a Gaza possa in qualche modo ritorcersi contro, provocando una crisi morale e politica e perfino una crisi di legittimità all’interno del centro imperiale come fece il movimento a sostegno del Vietnam?

Ci sono diverse cose da dire a questo proposito. Innanzitutto, non è come il movimento vietnamita e il movimento di solidarietà con il Vietnam, perché quel movimento, per la maggior parte di noi che vi ha partecipato, aveva un contenuto sociale molto chiaro. Non si trattava solo di una liberazione nazionale. Per quanto possa aver fatto degli errori, era guidato da un partito comunista il cui leader centrale era un uomo del Comintern, Ho Chi Minh. Questo ebbe un grande impatto in tutto il mondo, soprattutto dove esistevano partiti comunisti di massa, e creò tensioni all’interno di questi partiti, con la leadership che diceva: “Sosteniamo i vietnamiti, ma non diciamolo troppo forte”. Si trattava di un conflitto tra “pace in Vietnam” e “vittoria dei vietnamiti”. Questo ci permise di dividere questi partiti, in particolare le loro ali giovanili, in tutta Europa.

Qui, in Gran Bretagna, la totalità della sinistra radicale era più grande dell’ala giovanile del Partito Comunista. La sinistra radicale e la sua periferia egemonizzò molto rapidamente i giovani. Per questo organizzammo le occupazioni delle università. La London School of Economics fu occupata, e ci furono altre occupazioni universitarie, ovunque fosse presente l’estrema sinistra. L’SWP [all’epoca si chiamava International Socialists, ndt]e il giovane Gruppo Marxista Internazionale [sezione britannica della QI] ebbero un ruolo importante in questo, anche se i numeri erano piccoli. Naturalmente, la situazione era molto diversa e variava da paese a paese, ma si è verificata all’apice del XX secolo.

Inoltre, il modo in cui la lotta vietnamita fu condotta, il modo in cui i vietnamiti fecero appello all’internazionalismo, fu assolutamente cruciale. Ricordo che una volta nel Vietnam del Nord, quando ero insieme al primo ministro nordvietnamita, Pham Van Dong, dissi, di fronte a molte persone, “compagno, è tempo di organizzare delle Brigate Internazionali”. Lui mi prese da parte e mi disse: “Senti, ti dico qual è il problema. Non siamo in Spagna, che fa parte dell’Europa. Questo è un Paese molto lontano. Trasportarvi qui per propaganda politica ci costerebbe molto denaro, e noi non ne abbiamo. Poi ci dobbiamo assicurare che siate protetti. Perché questa non è una guerra combattuta con i fucili, gli americani ci bombardano in continuazione, uccideranno qualcuno di voi”. 

Io risposi: “E allora? La tua gente sta morendo”. Lui disse, usando esattamente queste parole: “No, non è una buona idea. Un’idea migliore è tornare indietro e costruire movimenti di massa in solidarietà con noi. È molto più utile di una piccola iniziativa”. Replicai: “Il console generale britannico ad Hanoi, che ha combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, mi ha detto tre giorni fa, davanti a un tè, che quando ha sentito arrivare i bombardieri, gli è venuta voglia di prendere un fucile, uscire sul tetto e sparare”. Allora Pham Van Dong disse: “Beh, perché non lo ha fatto? Non lo fermeremo”. Il messaggio era: voi ragazzi siete dolci e gentili e lo apprezziamo. Mi abbracciò molto calorosamente e disse che non sarebbe stato utile perché i tempi erano cambiati.

L’altra ragione per cui Pham Van Dong non voleva i volontari era che si trovavano su una strada molto insidiosa tra russi e cinesi: “Se facciamo un grande appello, sappiamo che arriveranno migliaia di persone dall’Europa e da altre parti del mondo, ma saremo convocati dal presidente Mao e dalla leadership russa, che ci diranno: ‘Cosa volete? Perché far entrare questi pazzi? State dicendo che non vi stiamo dando abbastanza armi?’ Quindi, non ci mettiamo in mezzo. È più facile”. Così, la QI decise che la costruzione del movimento di solidarietà con il Vietnam era una priorità centrale – e fu una delle cose migliori che abbiano mai fatto.

Un’ulteriore grande differenza era che, diversamente dai palestinesi, i vietnamiti avevano uno Stato nel Nord e un enorme sostegno materiale da parte dei sovietici e dei cinesi. Ottennero sempre più vittorie sul campo. Assistetti a una conferenza ad Hanoi tenuta dai loro migliori comandanti militari a cui fummo ammessi. Un ufficiale di alto rango spiegò come avrebbero schiacciato gli americani.

Io ero scettico. Dissi: “Schiacciare gli americani? Guardate cosa sta succedendo”. Il colonnello rispose: “Abbiamo un piano, una combinazione di attacchi di guerriglia e di attacchi improvvisi di massa per conquistarli”. In pratica descrisse l’Offensiva del Têt [offensiva a sorpresa su larga scala lanciata dall’esercito nordvietnamita e dai Viet Cong contro l’occupante statunitense nella notte tra il 30 e il 31 gennaio del 1968 considerato un momento decisivo della guerra, ndt]. Quindi, erano molto convinti e noi dicemmo che questa volta avremmo potuto vincere. Sarebbe stato un duro colpo per gli americani. E così è stato. L’atmosfera era quella.

La Palestina è diversa anche nel senso che per la generazione più giovane, non per quelle precedenti, la guerra a Gaza è stata uno shock enorme. All’inizio, gli elementi positivi hanno reagito come avevano reagito a Black Lives Matter: occupando i parchi e tutto il resto. Ma gradualmente il fenomeno si è approfondito ed è successo qualcosa che non è accaduto con tutti questi movimenti di stile Black Lives Matter: hanno iniziato a leggere e a porsi domande. Un elemento molto importante negli Stati Uniti è stato l’ingresso di giovani ebrei nel movimento. Non potevo credere ai miei occhi quando i giovani ebrei antisionisti occuparono la Grand Central Station e dissero al resto del movimento: “Questo è il nostro lavoro, lasciateci fare da soli”. Anche in Gran Bretagna avevano i loro striscioni, ma non hanno mai fatto azioni in maniera indipendente come lo hanno fatto i giovani ebrei statunitensi.

Questo ha scosso gli israeliani e l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), ma non ha toccato i politici, ovviamente. La mia sensazione è che questo abbia creato una nuova coscienza. Se non possiamo descriverla come totalmente antimperialista, non è poi così lontana da essa. La gente si rende conto che gli israeliani stanno operando con i nostri soldi, con le nostre bombe, in alcuni casi con i nostri soldati, ed è inaccettabile.

Sono ottimista sul fatto che ne uscirà qualcosa. C’è ammirazione per i palestinesi che reagiscono e disgusto totale per i soldati che vedono mormorare oscenità in stile nazista contro i palestinesi, come “i nostri bambini hanno bisogno di protezione perché non sono come i bambini arabi”. Questo tipo di appelli a “uccidere gli arabi” sono ripetuti dai loro sostenitori qui. Questo ha creato una forte sensazione che tutte le istituzioni create dagli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale siano inutili se gli americani non le sostengono, a partire dalle Nazioni Unite e da tutti i tribunali internazionali che stanno sabotando.

L’effetto sulle nuove generazioni è molto positivo. Ironia della sorte, lo Stato americano se ne renderà presto conto. Qualsiasi altro Paese potrà dire: “Chi siete voi per dirci qualcosa? Possiamo andare a fare le nostre atrocità come hanno fatto gli israeliani. Perché dovremmo ascoltarvi?”. In realtà, l’intera struttura delle relazioni internazionali è stata intaccata da questa particolare guerra. Israele, sostenuta dall’Occidente, ha compiuto un genocidio contro il popolo palestinese e le conseguenze ci accompagneranno per molto tempo. Questo è un ricordo che non passerà – e ovunque gli Stati Uniti lo facciano ora, la gente reagirà dicendo “Andate via! Non fatelo. Non vi crediamo”. E credo che abbia anche avuto un effetto, che piaccia o no, sulla percezione dell’Ucraina: “Voi dite che l’Ucraina è sacra, la difendete. Non possiamo fare questo o quello perché potrebbe offenderla. In Palestina, invece, si rimane a guardare”.

Interventi imperialisti in Medio Oriente

Un’ultima domanda sugli ultimi sviluppi in Medio Oriente. Cosa ne pensi quando vengono rovesciati i dittatori in Iraq, Libia e ora in Siria?

Non c’è motivo di festeggiare quando questi atti sono compiuti dagli imperialismi occidentali sotto la guida degli Stati Uniti. Quando vengono rovesciati dal loro stesso popolo, festeggio. L’Occidente elimina le persone che non gli piacciono in un determinato momento. Saddam Hussein in Iraq era un eroe quando agì per gli Stati Uniti e iniziò la guerra contro l’Iran. Divenne un “Hitler” solo quando invase il Kuwait immaginando di avere il via libera dagli Stati Uniti. Poi, dopo l’11 settembre, hanno fatto fuori lui e un milione di altri iracheni. Cinque milioni di orfani. Poi hanno linciato Saddam. C’è da festeggiare? Ho scritto contro di lui e ho prodotto un documentario che lo derideva quando era vivo.

In Libia, la NATO ha ucciso più di 30.000 libici per imporre un cambio di regime e linciare Muammar Gheddafi. “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”, fu la celebrazione di Hillary Clinton. I politici francesi e britannici hanno preso soldi da Gheddafi. La London School of Economics ha ricevuto una grande donazione e i suoi professori hanno scritto la tesi di dottorato del giovane Gheddafi. Lord Anthony Giddens, il teorico della “Terza Via” di Tony Blair,  ha paragonato la Libia a una “Norvegia del Nord Africa”.

Le stesse persone hanno sostenuto l’assalto della NATO. Per molti anni ho severamente criticato Gheddafi. Non ho festeggiato la sua morte. Cosa c’è da festeggiare nelle buffonate dell’imperialismo occidentale? Lo stesso vale per la Siria. L’Iraq non si è ancora ripreso. La Libia è un relitto, governato da jihadisti rivali. La Siria è già stata divisa. L’enorme trionfo dell’Occidente si sta ancora dispiegando.

I dirigenti occidentali non si vergognano più di mostrare i loro doppi standard, come osserviamo con il genocidio israeliano in Palestina, ma invece, gli utili idioti della NATO a Londra, Parigi, Roma, Berlino, ornamenti dei media borghesi e i loro sostenitori nella sinistra a malapena esistente, continuano a fingere che si stiano facendo progressi.

In uno dei suoi commenti sul teatro, Bertolt Brecht sottolinea che era interessato ai “nuovi giorni brutti, non ai vecchi giorni buoni”. Non ce ne sono più di belli. Secoli prima di lui, Baruch Spinoza – la cui sentenza di espulsione dalla Sinagoga di Amsterdam era appena stata revocata – diede il suo consiglio: “Né ridere né piangere, ma capire”. I liberali della NATO dovrebbero rifletterci.


  1. Il termine “Quarta Internazionale” si riferisce qui al “Segretariato Unificato”, sostituito nel 2003 da un Consiglio esecutivo e da un Comitato internazionale, di cui Ernest Mandel, Pierre Frank, Livio Maitan e Joseph Hansen erano le figure più note all’epoca. ↩︎
  2. “Ernest Mandel disse una volta che Isaac Deutscher e la New Left Review tendevano a indulgere nel culto dei faits accomplis”, in Tariq Ali, You can’t please all. Memoirs 1980-2024, Verso, London, 2024, p. 522. ↩︎
  3. Mary Elise Sarotte, Not One Inch: America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate, Yale University Press, New Haven, 2022. ↩︎
  4. Estratto da questo documento: “L’ingresso dell’Ucraina nella NATO è la più chiara delle linee rosse per l’élite russa (e non solo per Putin). In più di due anni e mezzo di conversazioni con i principali attori russi, da quelli che frequentano gli angoli bui del Cremlino ai più duri critici liberali di Putin, non ho ancora trovato nessuno che veda l’ingresso [dell’Ucraina] nella NATO come qualcosa di diverso da una sfida diretta agli interessi russi” (citato in Joshua Shifrinson e Stephen Wertheim, Acting too aggressively on Ukraine may endanger it – and Taiwan, in Washington Post, 23 dicembre 2021). ↩︎

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