La morte di Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, ha stimolato molte prese di posizione, così come riflessioni di vasta portata sui rapporti fra religione e tradizione rivoluzionaria socialista, nonché sul modo in cui questa tradizione, in Occidente, ha configurato la loro relazione reciproca, imponendola poi a contesti in cui è risultata inadatta. Sono problemi, questi, di importanza fondamentale, perché riportano l’attenzione su temi in gran parte assenti dal dibattito politico quotidiano e più immediato. Tuttavia, la concisione e la rapidità di una discussione che viene svolta soprattutto sui social hanno creato non poca confusione sulle diverse questioni che vanno affrontate per provare a dirimere un nodo così ostico. Infatti, una cosa è l’operato di Bergoglio, un’altra è la necessità (presunta) di convergere oggi, in Italia, col mondo cattolico progressista, un’altra ancora è il punto più complessivo dell’ateismo dichiarato del movimento operaio occidentale. Affrontiamole una alla volta, cercando di non confondere i piani.
Bergoglio sì, Bergoglio no: è questo il problema?
Dell’operato complessivo di Bergoglio bisogna dire che, a conti fatti, stiamo discutendo poco e male. Ciò accade perché in realtà partiamo a discuterne da quelle che sono le sue posizioni pubbliche e i suoi moniti su determinati temi. Così facendo, la sua immagine cambia a seconda della dichiarazione che prendiamo in considerazione. Si possono enfatizzare le prese di posizione più progressiste e lodevoli, come quelle sull’ambiente, sul disarmo, sulla necessità della giustizia sociale o sulla Palestina. Così come si potrebbe anche citare il suo endorsement per il Family World Congress del 2019 a Verona, cosa molto meno lodevole. Tuttavia, quelle che sono state le vere grandi operazioni di Bergoglio nei termini di politica interna alla Chiesa (le sostituzioni cardinalizie, il sostegno alle comunità missionarie dell’Amazzonia per farne un baluardo contro le destre, gli accordi col governo cinese per sostenere la Chiesa locale, ecc.) mancano completamente dal dibattito di questi giorni. Se volessimo parlare davvero seriamente del pontificato di Bergoglio dal punto di vista politico è soprattutto a questo tipo di operazioni che dovremmo guardare, perché – molto più dei moniti e delle encicliche – sarà questa la sua eredità all’interno della comunità internazionale della Chiesa cattolica con cui il suo successore dovrà fare i conti. Così, andrebbe valutato anche il fatto che l’arrivo al soglio pontificio di una figura eccentrica come Bergoglio è stato determinato dalla situazione di grave crisi interna ed esterna che stavano vivendo l’autorità papale e la Chiesa nel suo complesso da Wojtyla in avanti. In questo senso ci sarebbero gli estremi per dire che Papa Francesco ha ridato al mondo cattolico una speranza di sopravvivenza e una parvenza di legittimità che ora, molto probabilmente, non sarà spesa per inverare gli spunti progressivi che lo stesso Bergoglio ha lanciato.
Ciò detto, per determinare fino in fondo il suo ruolo nella storia della Chiesa è ancora presto e, possiamo dircelo, nemmeno di grande rilevanza dal punto di vista della nostra attività politica. Più importanti sono gli interrogativi suscitati dalla discussione intorno alla sua scomparsa in termini di rapporti fra movimento per la trasformazione sociale e religiosità.
Una questione di contesto
Negli ultimi giorni si sono moltiplicati post o articoli che hanno sottolineato l’ingenuità delle critiche alla Chiesa e più in generale alla religione svolte dal punto di vista di un ateismo rozzo e di maniera, incapace di vedere l’importanza di avere su soglio di Pietro un oscurantista come Ratzinger o un eccentrico come Bergoglio. Molti di questi acuti interventi finiscono per citare momenti o figure dei movimenti rivoluzionari o di liberazione nazionale del “sud globale” come esempi di una commistione produttiva tra fede e socialismo o tra fede e lotta antimperialista. In base a questo si critica l’ateismo della tradizione occidentale come eurocentrico. Questa critica è intelligente e stimolante, e proprio per questo merita di essere presa in considerazione.
Una delle cose che gli studi post-coloniali ci hanno insegnato è che i modi e le forme delle lotte sono sempre contestuali. Così, è assolutamente giusto e legittimo vedere il contenuto progressivo e rivoluzionario di certe declinazioni della fede cristiana in Sud America, come lo è riconoscerlo all’Islam in altri contesti1. Se è vero che forme e modi delle lotte sono contestuali, ciò allora vale però anche in Occidente. Piaccia o meno, la tradizione politica socialista e comunista occidentale è figlia dell’illuminismo del XVIII secolo. Per quanto variegato al suo interno, il movimento illuminista è coinciso con un modo di intendere il mondo che, semplificando all’estremo, sulla religione pensava due cose: 1) che la religione non ha una legittimità come forma conoscitiva di una qualsivoglia verità, bensì rappresenta solo una forma di superstizione con cui l’essere umano affronta dolori, paure e solitudini, e attraverso cui prova a dare senso alla pura casualità insensata di essere al mondo; 2) che tale superstizione è più o meno sempre stata strumentalizzata per legittimare l’appropriazione indebita, da parte di un gruppo sacerdotale parassitario, di una quota della ricchezza sociale prodotta dai subalterni (o, nella versione più propriamente illuminista borghese, dal “terzo stato”).
Nato da questa tradizione, il movimento operaio europeo si è strutturato intendendosi sia come elemento di contrasto a quella che non poteva che considerare come la menzogna religiosa (da cui l’antica e mai troppo rimpianta alleanza fra verità scientifica, progresso tecnico – inteso come liberazione dagli affanni e dalle sofferenze biologiche dell’animale umano – e rivoluzione socialista) sia come opposizione alle forme ecclesiastiche di potere e di connivenza con i gruppi dominanti. Di conseguenza, l’attività di demistificazione di tutte le credenze religiose ha assunto e avuto un ruolo determinante, divenendo una delle caratteristiche dell’idea occidentale di emancipazione e liberazione dall’oppressione. Di nuovo, può piacere o non piacere, ma il contesto storico europeo, in cui la fede ha quasi sempre (dopo vedremo delle eccezioni) rappresentato un semplice strumento nelle mani dei dominanti, ha creato un’opposizione teorica e politica difficilmente ricomponibile.
Non è ovviamente un caso se in quasi tutto l’Occidente la situazione sia questa, mentre al di là del mondo europeo la situazione sia affatto diversa. Nei contesti coloniali e post-coloniali, dove l’identità etnica e culturale dei popoli colonizzati è stata ed è continuamente repressa, la religione si è infatti posta come elemento resistenziale. In qualità di strumento identitario e quindi di resistenza all’annichilimento esistenziale e culturale, essa ha potuto svolgere un’effettiva funzione anticoloniale e antimperialista. In questo caso a venire in primo piano non è tanto la sua funzione normativa nei confronti dei comportamenti individuali o il suo essere un’interpretazione del mondo di un certo tipo, quanto il suo ruolo di collante sociale e di identità culturale. Non è quindi sorprendente se i contesti europei, in cui la religione istituzionale o popolare hanno giocato e giocano ancora un ruolo rilevante, sono quelli in cui le dinamiche di dominio hanno avuto, in modo più o meno esplicito, il volto della colonizzazione. Due esempi su tutti: l’Irlanda del Nord e il Meridione italiano.
Il fatto però che si siano storicamente dati contesti di convergenza non ci deve dare l’illusione di una sovrapposizione che sia facilmente esportabile dallo specifico contesto storico e geografico in cui si è data. Si fa presto, infatti, a dire che, ad esempio, il messaggio evangelico ha dei forti elementi di contatto con il socialismo. Bisognerebbe prima notare che il “messaggio evangelico”, a ben vedere, non esiste. Quello che esiste sono i modi in cui testi (dalla composizione e trasmissione a dir poco funambolica) sono stati adattati a esigenze geografiche, storiche e politiche diversissime. Il fatto stesso che Ratzinger e Bergoglio, così distanti l’uno dall’altro, siano stati nello stesso momento capi spirituali e politici della Chiesa vale come esempio della polivocità del “messaggio cristiano”. Invocare quei passaggi evangelici che richiamano un vago senso di eguaglianza fra gli esseri umani (tralasciandone altri che vanno in tutt’altra direzione) non ci aiuta e di certo non ci dà informazioni sulla possibilità e sulla necessità di una convergenza di principio. Il punto è infatti sempre come questi testi, dai contenuti labili e impossibili da separare davvero dalle loro canonizzazioni storiche, sono stati usati. Inutile (o forse no) ricordare che le religioni sono quasi sempre state utilizzate non per sovvertire, bensì per legittimare l’ordine imposto dalle classi dominanti. Per ogni Thomas Müntzer, sollevatosi al grido omnia sunt communia, ci sono stati mille Martin Luther allineatisi fra le schiere dei principi. Cosa, questa, vera sia in Europa sia nei paesi colonizzati dalle potenze occidentali, siano questi i paesi che hanno assunto, in seguito alla colonizzazione, la fede cristiana o quelli dove il Cristianesimo dei colonizzatori non ha fatto breccia.
Questo ci dice che nel “marxismo europeo” e, più in generale, nella tradizione rivoluzionaria europea l’ateismo e l’avversione di principio alla credenza religiosa e alle istituzioni che la rappresentano è una posizione strutturante e caratterizzante (a parte, lo si ripeta ancora una volta, in alcuni specifici contesti). Il che rende velleitario pensare di applicare nel nostro contesto gli schemi politici e concettuali sviluppati dai movimenti decoloniali. D’altra parte, questo ci dice anche che l’Europa non ha nessun diritto di giudicare come ingenue o contraddittorie lotte che hanno preso altre vie rispetto alla divaricazione fra religione e rivoluzione. Ancora più importante, tale pluralità non investe solo le forme delle lotte, bensì i loro obiettivi, cioè i modi attraverso cui è stata caratterizzata a seconda dei contesti l’idea stessa di emancipazione che, pur in un quadro di somiglianza su alcuni assunti di fondo, può poi assumere modalità espressive radicalmente opposte. Ed è questo, più di ogni altra cosa, che deve farci usare molta cautela, in Occidente, quando invochiamo la nostra idea di emancipazione per un contesto che non è il nostro oppure quando proviamo a tradurre da noi un’idea di liberazione nata altrove. I contesti sono importanti, sia il nostro sia quello altrui.
Che fare con la fede?
Bene, ma allora come si deve comportare nei confronti di persone più o meno credenti chi opera per la trasformazione sociale all’interno dei contesti occidentali? Il problema qui è strategico e come ogni momento strategico non ha a che fare con la purezza della teoria, bensì con l’effettività della prassi. La prassi politica non ha a che fare con costrutti logici o con i concetti presi nella loro astrattezza, non si può fermare alle inferenze teoriche, ma deve accettare il mondo com’è e muoversi in esso per trasformarlo. Ciò significa sapere che, nonostante ci troviamo in un’epoca in cui a livello di competenze sulla natura e sulla società non esistano reali motivi logici, epistemici e teorici che motivino una credenza nella trascendenza o un bisogno di sacralità, le convinzioni religiose hanno ancora un peso enorme nelle vite di milioni di persone. Limitandoci solo al mondo cristiano, benché la Chiesa cattolica abbia perso molto del potere che aveva, in Occidente e non solo la ritualità cristiana scandisce ancora molti dei riti di passaggio della maggior parte degli individui (nascita, legame matrimoniale, morte). Così, le parole del capo politico della Chiesa sono sicuramente ascoltate e godono di una visibilità che ha pochi eguali. In questo senso è sicuramente rilevante che il Pontefice prenda una posizione di un certo tipo o meno, e sarebbe sciocco sostenere il contrario.
La questione però non si limita a questo. Essa arriva a investire quelle che sono le motivazioni stesse che spingono un individuo a fare politica. Chiariamoci per quanto possibile gli elementi in gioco. Per quanto molto spesso il “marxismo” sia stato identificato come una forma di religione o di adesione acritica a una speranza in un mondo a venire, la critica marxiana dell’economia politica condivide poco o nulla con una forma di credenza religiosa. La critica dell’economia politica e una fede come, ad esempio, il Cristianesimo sono forme epistemiche e pratiche molto diverse. La critica dell’economia politica è, nonostante le sue molte versioni, qualcosa di molto più definibile. Nella sua essenzialità essa rappresenta una modellizzazione teorica volta a rappresentare l’attuale modo in cui gli esseri umani organizzano la produzione come legato a un antagonismo fra gruppi sociali storicamente determinato. Proprio per questo, quindi proprio perché ne mostra il carattere di formazione storica contingente, ne prefigura e ne propizia la conclusione, ponendosi come piattaforma di partenza per un’intelligenza e un’organizzazione collettiva della trasformazione sociale globale. Il Cristianesimo è invece un oggetto estremamente più proteiforme, anche perché ha dovuto adattarsi a condizioni estremamente diverse e a rivolgimenti storici da capogiro. Andando per semplificazioni estreme, possiamo però dire che esso consiste nella credenza alla veridicità di un racconto di salvezza extraterrena, il cui senso storico e individuale è gestito – almeno all’interno della versione cattolica – da un potere di rappresentanza della trascendenza nel mondo secolare.
Date queste differenze, va rilevato che nel momento in cui i costrutti logici ed epistemici diventano moventi per l’azione individuale e collettiva perdono parte della loro logicità per assumere anch’essi la forma di credenza e di convinzione – individuale o collettiva. All’interno dell’effettività e della realtà dell’azione, la differenza o la somiglianza fra interpretazioni del mondo diverse si gioca allora non tanto sul loro contenuto di verità, quanto sul tipo di obiettivi, strategie e prassi che promuovono. In questo senso, nel momento in cui diventa un movente per l’azione, anche la critica dell’economia politica diventa credenza o convinzione ed è passibile di cooperare o di mescolarsi con altre credenze che promuovono obiettivi strategici simili attraverso pratiche di diffusione progressiva del potere e di organizzazione collettiva. Detto in modo più semplice, a chi milita in un’organizzazione comunista deve importare poco, in prima istanza, se è un pieno riconoscimento della contraddizione capitale-lavoro o se è un senso di carità e di universalismo cristiano che porta un individuo ad appoggiare delle rivendicazioni politicamente progressive e a partecipare ai processi di soggettivazione politica dei ceti subalterni. Così, l’ascolto e la convergenza con le masse popolari, in Italia e altrove, la cui vita è scandita dal “tempo della Chiesa” e che vedono nel Pontefice un riferimento non deve spaventarci, ma deve anzi essere un modo in cui provare la forza di unificazione del nostro fronte.
Ciò però va fatto sempre sapendo che il compito di chi fa militanza comunista è quello dell’egemonia. La convergenza con una rivendicazione progressiva motivata dalla credenza religiosa è allora di scopo e momentanea, affinché se ne possa poi mettere in luce il cuore materiale. Questo non tanto per una presunta battaglia di civiltà o di verità, quanto perché, a rigor di termini, la morale di una persona credente e, quindi, i suoi comportamenti rispondono a un’autorità che storicamente e socialmente non sta dal lato dei ceti subalterni, ma da quello dei dominanti. Il punto politico non è convincere le persone credenti a rinunciare alla fede personale. Di questo importa poco nel momento in cui la fede serve a dare un senso a ciò che all’individuo non può che parere insensato; come insensata non può che apparire ogni sofferenza che la casualità del mondo infligge a noi e ai nostri cari, ad esempio. Allo stesso tempo, una ritualità popolare, che non coincida con il controllo dei corpi o con l’esclusione violenta di chi ne pratica un’altra e si ponga come momento inclusivo di partecipazione orizzontale alla comunità, è perfettamente compatibile con l’alternativa sociale rappresentata dalla produzione collettivizzata e organizzata democraticamente. Meno compatibile è invece la gestione della ritualità da parte di un gruppo determinato di individui, che ne mantiene il monopolio.
Ciò che importa davvero nell’azione di egemonia è quindi – laddove ce ne sia la necessità – staccare gli individui dalla loro aderenza alle varie istituzioni che pretendono di dare voce alle rispettive religioni. Che si voglia o meno, il conflitto d’autorità fra potere religioso e potere temporale (sia questo quello statuale borghese o quello futuro di una vera democrazia popolare) è un nodo ineludibile, la cui importanza non va sottovalutata in nome dei tempi di magra che viviamo. Nel momento in cui ci si allea con una persona credente bisogna sempre tenere da conto che, se non si arriva ad avere un nocciolo comune di progettualità politica riguardante la trasformazione complessiva della società nelle sue condizioni di produzione e riproduzione materiale, quella, a un certo punto, risponderà a un progetto politico diverso e antagonista, incarnato dall’istituzione religiosa di turno.
Via dal centro, fra le masse
In conclusione, va fugato un altro equivoco che è circolato in molti interventi degli ultimi giorni. Rinnovare e complicare la riflessione sul rapporto fra le varie fedi religiose e l’organizzazione della trasformazione sociale è fondamentale nel momento in cui i fenomeni migratori stanno mettendo i movimenti occidentali nella posizione di dover affrontare i problemi pratici e teorici dei contesti post-coloniali all’interno del proprio terreno tradizionale. Sicuramente questo comporta l’assunzione di responsabilità da parte dei gruppi politici occidentali sul fatto che il proprio ateismo può non essere ritenuto accettabile e condivisibile anche da chi, nelle attuali condizioni, dovrebbe essere considerato come il loro alleato più diretto dal punto di vista sociale e politico2. Al contempo, questo non deve scadere nel falso compromesso per cui ogni posizione in materia di posizionamento morale e politico, dettata da tradizioni religiose proprie dei contesti post-coloniali, vada come tale ritenuta accettabile in automatico, anche là dove riproduce meccanismi di potere propri di quei contesti.
Ancora, complicare le nostre categorie di partenza serve non solo a saper affrontare con piena consapevolezza le trasformazioni sociali a cui stanno andando incontro le classi subalterne italiane. Il suo scopo è anche quello di consentirci di affrontare nuovamente uno dei crucci storici della sinistra italiana, cioè il suo rapporto con le masse cattoliche del nostro paese. Tuttavia, anche in questo caso, l’interrogativo da porci non è tanto quello su come “recuperare l’elettorato cattolico”; il che si traduce inevitabilmente nella solita caccia alla rappresentanza dell’ondivago centro italiano. La rincorsa ai cattolici moderati e progressisti è sempre stato l’altare su cui i partiti di massa della sinistra italiana hanno sacrificato i propri propositi più radicali: vogliamo davvero ripercorrere quella strada ancora una volta dopo aver sperimentato tutte le miserie del suo fallimento? Non è questa infatti l’alleanza di cui abbiamo bisogno. L’alleanza, la vera alleanza, deve avvenire dal basso, in quelle periferie e, più in generale, in quelle parti abbandonate del nostro paese dove si scontrano lingue, tradizioni, culture, fedi e provenienze geografiche diverse, che possono trovare un momento di unificazione solo nel riconoscimento reciproco della condizione di subalternità in cui la stragrande maggioranza degli individui sono costretti. Perché il Dio da pregare avrà nomi diversi, ma lo sfruttamento che subiamo ci accomuna tutte e tutti.
- Si veda a proposito: https://www.progettometi.org/analisi/il-marxismo-anticoloniale-di-mahdi-amel/ ↩︎
- Sul riconoscimento della componente migrante come alleata della trasformazione sociale ci sono ancora molti fraintendimenti su cui si veda quanto abbiamo già scritto in https://www.progettometi.org/analisi/sahra-wagenknecht-e-legemonia-culturale-delle-destre/ ↩︎