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Sahra Wagenknecht e l’egemonia culturale delle destre

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Le ultime elezioni negli Stati della Sassonia e della Turingia sono state un colpo durissimo per la sinistra tedesca, tranne che per un partito nato da pochi mesi, nel gennaio del 2024, a partire dalla rottura con Die Linke: “L’Alleanza Sahra Wagenknecht” (BSW) che è riuscito a ottenere il terzo posto in entrambi gli Stati, con il 15,8% in Turingia e l’11,8% in Sassonia1.

Questo risultato ha rafforzato la convinzione, in alcuni, che si debba applicare anche negli altri Paesi europei la “ricetta Wagenknecht”, ovvero una critica serrata e una proposta alternativa alla cosiddetta “sinistra neoliberale”, una sinistra elitaria, padronale, attenta esclusivamente ai diritti civili (per di più edulcorati nella loro versione più digeribile e “sistemica”). Rimanendo su questo piano e guardando alla sinistra italiana sembra difficile non sposare questa critica. Ma bisogna fare attenzione perché se per un verso l’attacco alle formazioni politiche che hanno completamente abbandonato e tradito la rappresentanza delle classi popolari, le battaglie per i diritti fondamentali – al lavoro, alla salute, alla casa – è più che legittimo, è necessario leggere la proposta politica di Wagenknecht e, forse, anche il suo successo elettorale più che come una radicalizzazione e un ritorno ai valori fondamentali della sinistra come il risultato di decenni di lavoro egemonico delle destre.

Questo è particolarmente evidente quando si parla di flussi migratori e di rapporto tra forza lavoro autoctona e straniera in Europa.

Negli anni molte persone che si definiscono progressiste (se non addirittura comuniste2) hanno interiorizzato tutto l’apparato discorsivo reazionario diventato vero e proprio senso comune in merito al tema immigrazione e ora non si fanno problemi ad esternarlo pubblicamente. E non mancano gli endorsement eccellenti, come quello del sociologo tedesco Wolfgang Streeck, direttore emerito dell’Istituto Max Planck, che in una recente intervista sottolinea come BSW abbia il merito (sic!) di difendere i diritti della piccola e media impresa, mutuando, anche su questo piano lo sguardo delle destre: il problema è solo il Padrone con la P maiuscola, la grande multinazionale, la corporation; tutti gli altri, i padroncini – che sono più piccoli ma non per questo garantiscono migliori condizioni di lavoro o più tutele ai propri dipendenti – fanno parte di fatto del tessuto sano del Paese: sono la parte da difendere.

Wagenknecht, alla quale pure si deve riconoscere un certo coraggio, ad esempio, nel mantenere posizioni anti-atlantiste e pur respingendo al mittente le accuse di “rossobrunismo”, utilizza per raccogliere consenso i più triti pregiudizi e discorsi ideologici delle destre. Quello che vorremmo fare qui è analizzare la sua proposta sull’immigrazione a partire dai dati, non dalle “percezioni” (sull’“invasione”, sull’insicurezza e criminalità crescenti).

Le destre hanno sempre costruito le loro argomentazioni anti-immigrazione attraverso due tipologie di discorso. Il primo, di carattere più ideologico, si avvale di tesi, più o meno apertamente xenofobe, riguardanti la necessità di preservare cultura e tradizioni del Paese; il secondo, considerato molto più sociale e “concreto”, richiama il tema della sicurezza, dell’aumento della criminalità e della scarsità, ovvero: noi qui abbiamo già troppo poco (servizi, possibilità di lavoro, case, risorse in generale), non possiamo dividerlo con altri, pena la fame nera per tutti.

L’opzione populista di Wagenknecht, mettendo al centro il secondo argomento, fa in realtà leva anche sul primo, parlando alla pancia dei suoi elettori. Utilizzando la sacrosanta critica alla sinistra istituzionale – che si è svenduta, che non rappresenta più il suo tradizionale soggetto di riferimento – come ariete, sfonda i confini che la separano dalla destra proponendo un’opzione politica solo apparentemente alternativa e radicale.

Leggendo il suo libro-manifesto “Contro la sinistra neoliberale”, pubblicato in Italia da Fazi nel 2022, si nota come alcune false argomentazioni (ad esempio: l’equazione casa=Stato3, la netta separazione tra “profughi” e migranti economici4) siano perfettamente sovrapponibili a quella delle destre; altre sono elaborate apparentemente “da sinistra” richiamando il tema del lavoro e della concorrenza (sleale) interna alla classe. Questa concorrenza sleale dipenderebbe dalla sovrabbondanza di mano d’opera – straniera – a basso costo, abituata a condizioni di lavoro terribili, disposta a tutto e non sindacalizzabile.

A trarre vantaggio da questa situazione sarebbe la classe padronale che, approfittando di questa disponibilità di forza lavoro semi-schiavile, riuscirebbe a tenere basso il costo del lavoro e, soprattutto, a operare un divide et impera che impedirebbe qualsiasi forma di organizzazione, diminuendo considerevolmente il potere di contrattazione degli occupati5.

Ma queste affermazioni sono suffragate dai fatti oppure si basano su una percezione distorta che spiega, utilizzando una scorciatoia, la difficoltà, reale e ormai storica, delle organizzazioni sindacali a rappresentare il loro soggetto? La rottura del fronte di classe e la difficoltà a invertire la rotta del processo di precarizzazione del lavoro in Europa e di compressione dei diritti dipendono dalla presenza di forza lavoro immigrata all’interno dei nostri confini? Proviamo a separare l’aspetto ideologico, in senso deteriore, dal piano della concretezza.

1 – La grande maggioranza degli studi scientifici dimostra che non esiste un legame tra l’ingresso di nuovi lavoratori stranieri nel mondo del lavoro e riduzione dei salari. Anzi, ad essere precisi, ne esistono diversi che provano l’esatto opposto. Questo vale per l’Italia e per l’Europa, come per il resto del mondo. Dal punto di vista concettuale è ovvio che l’arrivo di persone migranti determini un aumento dell’offerta di forza lavoro e quindi una potenziale riduzione dei salari. D’altra parte, bisogna tener conto del fatto che ciò genera anche un aumento della domanda di beni e servizi. Aumento dei consumi che a sua volta determina un aumento della domanda di lavoratori da parte delle imprese, che può andare a compensare l’aumento dell’offerta di forza lavoro. Questo concetto è stato ribadito di recente anche dai premi Nobel per l’economia (2019) Esther Duflo e Abhijit Banerjee nel loro ultimo libro “Una buona economia per tempi difficili” (2020).

Può essere utile fare un passo indietro per vedere quali effetti abbiano avuto i flussi migratori sul rapporto lavoro autoctono/straniero nel recente passato. Lo studio pubblicato nel 1990 dall’economista David Card, anche lui premio Nobel, ha esaminato il caso dell’esodo di Mariel. 125.000 cubani arrivarono a Miami determinando un improvviso aumento della forza lavoro del 7%, senza però impattare sui salari. Poi, c’è il caso dell’amnistia generale in Italia del 1990/91 quando ad un grandissimo numero di “clandestini” venne concesso un permesso di lavoro. Questo caso è stato oggetto di uno studio condotto nel 1999 dagli economisti Andrea Gavosto, Alessandra Venturini e Claudia Villosio dal titolo “Gli immigrati competono con i nativi?”. Sulla base dei dati, gli autori affermano: “I nostri risultati mostrano che l’afflusso di immigrati aumenta i salari dei lavoratori manuali autoctoni”. Andando poi avanti negli anni c’è lo studio sui lavoratori dipendenti pubblicato nel 2018 dalla rivista “Economia Italiana” sui dati Inps relativi al ventennio 1995-2015 dove si afferma che “I risultati delle nostre analisi mostrano come l’ingresso dei migranti nei mercati locali del lavoro non riduce, ma anzi aumenta, seppure in maniera molto lieve, i salari dei nativi: una variazione dell’offerta di lavoro migrante del 10% aumenta i salari dei nativi di 0.1%”. Sempre nel medesimo studio si specifica che la mancanza di forti legami familiari e di proprietà immobiliare fa sì che “i migranti, in un contesto di eccesso di domanda locale, possono allocarsi nel mercato italiano senza sostituirsi al lavoro nativo”. Il vero problema rilevato dagli studi risiede nel fatto che gli stranieri hanno redditi sistematicamente più bassi. La questione che si dovrebbe affrontare allora è quello dello sfruttamento dei migranti e della povertà in cui sono costretti a vivere.

Anche sul fronte della sindacalizzazione, della denuncia dell’ipersfruttamento e della lotta per il miglioramento delle condizioni di lavoro, la componente straniera ha dimostrato di essere ugualmente se non più presente e, nonostante le ovvie difficoltà, visibile e determinata di quella autoctona. I (pochi) cicli di lotte e la messa al centro del discorso pubblico del tema del lavoro sottopagato e non tutelato negli ultimi dieci anni nel nostro Paese (si pensi ad esempio al comparto della logistica e a quello agricolo) hanno visto protagonista proprio la componente dei lavoratori di origine straniera. Delle conquiste ottenute da questi cicli di lotte hanno ovviamente beneficiato tutti, anche i lavoratori autoctoni.

Inoltre, se pure volessimo assumere l’idea che la forza lavoro straniera sia maggiormente ricattabile, dovremmo dire che questa condizione non è un destino ineludibile ma il frutto di rapporti di forza sbilanciati che una forza politica che si dice di sinistra dovrebbe assumersi il compito di riequilibrare, invece che peggiorarli attraverso politiche che segmentano la classe.

Questo elemento diventa particolarmente interessante in ottica internazionalista: se il BSW mantiene meritoriamente posizioni antimperialiste e di critica a interventi militari dell’Occidente nei Paesi del Sud globale, questa posizione sfocia in uno sciovinismo nazionale che difende in primis i lavoratori autoctoni – cioè proprio quelle categorie di lavoratori il cui voto Wagenknecht rincorre – e non in una difesa dei diritti dei lavoratori tutti, autoctoni e migranti insieme. Troviamo qui un antimperialismo con forte caratterizzazione nazionalista quindi, e non un antimperialismo che vuole imparare dalle lotte politiche, sindacali e sociali dei lavoratori migranti, sia nei loro Paesi di provenienza che nei Paesi in cui sono emigrati.

2 – La seconda tesi utilizzata per suffragare argomenti quali “le persone perseguitate devono ricevere protezione, ma non a casa nostra (in Germania)”6 è che i flussi migratori sono fuori controllo e che dunque è impossibile aprire le porte alle persone che ne hanno “davvero” bisogno (sottolineiamo la contraddizione tipica di chi sostiene che il “profugo” sia perfettamente distinguibile dal “migrante economico” ma che poi non riesce a operare nei fatti questa distinzione per garantire protezione a nessuno dei due).

I flussi migratori non sono per nulla fuori controllo, anzi continuano a essere molto contenuti. Secondo Eurostat solo l’8,5% degli abitanti dell’Ue sono nati fuori dall’Unione. Tanto per dare un’idea, in Svizzera sono il 30,7%, in Australia il 29,2% e negli Usa il 14%. Per quanto concerne, invece, la forza lavoro, solo il 5,1% delle persone occupate è nata fuori dall’UE. I profughi scappati da conflitti rappresentano appena l’1,5% della popolazione totale. Come documentato dall’Ocse, in tutti i Paesi facenti parte dell’organizzazione “i migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione”.

Parlando del nostro Paese nello specifico, l’Italia è perfettamente in linea con la media europea in quanto gli stranieri rappresentano l’8,6% della popolazione totale. Se vogliamo invece prendere ad esempio la Germania, è dal 1970 che la mortalità supera la natalità e solo grazie ai migranti è riuscita a diventare la locomotiva d’Europa, prima per manifattura e con alti salari. Solo grazie all’apporto dei lavoratori migranti i tedeschi riescono a godere di pensioni superiori alla media UE e lo stesso vale per sussidi e assistenza sanitaria.

Dobbiamo “tenere aperti i confini” semplicemente perché la forza lavoro straniera ci garantisce pensioni e corregge la tendenza al crollo delle nascite? Certo che no, non è questo il nostro punto. Il diritto all’accoglienza è per noi una naturale conseguenza di una visione della classe come internazionale, ma ci teniamo a mettere in evidenza questi dati per utilizzarli contro il discorso tutto ideologico delle destre e delle sinistre à la Wagenknecht.

3 – Infine, c’è l’argomento dell’aumento della criminalità e dell’insicurezza, in particolare nei quartieri periferici. Questo argomento è particolarmente significativo in quanto, associato a quello della competizione e della frammentazione sul piano del lavoro, sembra collegare le cattive condizioni di vita delle classi popolari – bassi salari, assenza di servizi, quartieri degradati – alla presenza di persone straniere. Ancora una volta tocca distinguere propaganda e percezione dai dati.

Non esiste alcuna correlazione tra l’aumento dei migranti (in particolare i richiedenti asilo) e l’aumento della criminalità. I grandi Paesi europei (ad eccezione della Spagna) sono sempre più sicuri, come testimoniano i dati Eurostat. Secondo il Censis, tra il 2012 e il 2021 in Italia gli omicidi volontari sono diminuiti del 42,4%, le rapine del 48,2%, i furti in casa del 47,5%, i furti d’auto del 43,7%. Nella popolazione carceraria la componente migrante è sovrarappresentata perché gli stranieri sono più poveri e più difficilmente possono accedere alle misure alternative (ad es. i domiciliari). Il fenomeno è tutto politico e riguarda per lo più gli “irregolari” che, essendo impossibilitati ad avere un impiego formalmente contrattualizzato, rischiano di entrare più frequentemente nei circuiti dell’economia informale e della delinquenza. Secondo alcuni studi, il tasso di delittuosità è praticamente identico tra italiani e stranieri regolari.

In Italia esiste un problema di percezione, di falsa coscienza. Negli ultimi quarant’anni le campagne di criminalizzazione dei migranti portate avanti da media e politica hanno prodotto un allarme sociale infondato e il termine immigrazione è ormai diventato sinonimo di insicurezza. Il tema della ghettizzazione delle persone povere/straniere è certamente centrale – dal punto di vista della possibilità di accesso ai servizi, del diritto a vivere in un ambiente decoroso e salubre – ma si può declinare in chiave progressista soltanto uscendo dalla logica propagandistica dell’“emergenza sicurezza”, o, peggio ancora, del sentirsi “padroni a casa propria”. È Wagenknecht stessa che richiama questa retorica di salviniana memoria quando parla del rischio che la rapida integrazione di persone straniere comporti per gli autoctoni “un cambiamento talmente veloce del loro vicinato da non sentirsi più a casa propria”.

Consapevoli del fatto che l’adesione a progetti politici non avviene solo in modo “logico” e che non basta l’argomento giusto per creare l’unità di classe, si pone la domanda dell’intervento e dell’organizzazione politico-sociale capace di rompere con la frammentazione e la passivizzazione delle masse. L’Alleanza Sahra Wagenknecht è un’opzione elettorale verticistica costruita dall’alto (in cui si può essere un “sostenitore”) che non mira a costruire strutture sociali e momenti “dal basso” in cui si possano incontrare i diversi settori della classe sfruttata per combattere – a livello culturale, ideologico e materiale – la “falsa coscienza”.

Non possiamo rispondere a veri problemi con false soluzioni. L’unità dei settori popolari è una necessità, ma non può essere costruita a partire dalla frammentazione della classe in autoctona e straniera. Caldeggiare questa contrapposizione in virtù del consenso e del riscontro elettorale che questo tipo di discorsi riscuotono è paradossale e rappresenta una pericolosa adesione alla cultura politica delle destre. Immaginare l’accoglienza e la possibilità di movimento come diritto e non come concessione è una questione tutta politica che ha a che fare con i nostri compiti presenti e futuri: non è una “moda”, come scrive Wagenknecht. Insomma, nell’essere fianco a fianco con i lavoratori e le lavoratrici straniere non ci anima nessun “buonismo” o ipocrita “spirito umanitario”, ma solo l’analisi materialistica della realtà e la voglia di ripensare, assieme ai nostri naturali alleati, nuovi modi per trasformare l’esistente.

Anche il contrasto alla prospettiva elitaria e culturalista della sinistra neoliberale condotto da Wagenknecht è gravato dalla stessa inversione: il problema non è difendere i diritti civili, stare dalla parte della comunità LGBTQIA+, propugnare l’antirazzismo o l’antisessismo, “a spese” delle classi popolari. Ma leggere in un’ottica intersezionale e di classe tali questioni. La battaglia per i diritti è sempre stata anche una battaglia culturale ed egemonica. Il fatto che adesso la “battaglia sulle parole” sembri cancellare tutto il resto deriva da una penetrazione delle idee liberali e, soprattutto, dalla debolezza organizzativa e di discorso delle sinistre. Quando, parlando del movimento di liberazione e per i diritti civili degli afroamericani (cap. 4), Wagenknecht sottolinea che l’attenzione per la lingua, per i simboli, viene fuori dalle frange più elitarie, dalle università, dimentica un tal signor Muhammad Alì o un certo Malcolm Little, che scelse di farsi chiamare “X”, che rifiutarono il proprio nome da “schiavi”, inventandosene uno nuovo, e dimentica la battaglia per l’affermazione dei simboli e dei linguaggi della comunità nera dei proletari del Black Panther Party. Gli esempi potrebbero essere infiniti. Insomma, come per il tema dell’immigrazione, Wagenknecht nel suo testo programmatico fa cherry picking, selezionando arbitrariamente le fonti e mistificando la storia. Nazionalismo (sciovinismo, sovranismo, etc.), culturalismo e visione ultraliberista sono, a ben guardare, affetti dalla stessa malattia: leggono il mondo in una prospettiva interclassista, “inventando” insiemi e contrapposizioni su base identitaria (ad es. autoctoni/stranieri) che eludono o peggio mistificano la contraddizione capitale/lavoro e che non hanno nulla a che fare con i vettori che tengono insieme concretamente le classi popolari: i loro bisogni e le loro reali condizioni di vita.


  1. Ha ottenuto il 6,2% alle elezioni ultime europee superando il Partito Liberale Democratico (FDP). ↩︎
  2. Che inviteremmo a riflettere anche sulle posizioni di Wagenknecht sul tema del merito/bisogno: “Secondo Marx, nel comunismo dovrebbe valere il principio “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Non lo ritengo praticabile. Sono necessari incentivi alla prestazione e pressione verso l’efficienza”. Cfr. https://archive.is/MoK6C#selection-2957.8-2957.19. ↩︎
  3. Questa l’argomentazione utilizzata: se la ragione per la quale dovremmo “accogliere tutti” è rimediare a uno svantaggio/privilegio di nascita (chi nasce in Paesi più poveri deve essere accolto da quelli più sviluppati) questo dovrebbe valere anche per chi nasce in una famiglia con meno possibilità economiche: le famiglie ricche dovrebbero ospitalo e sostenerlo. Utilizzando la falsa equazione casa = Stato (aprire le frontiere = aprire le porte della propria abitazione privata), Wagenknecht costruisce un’immagine paradossale e, dunque, difficile da sostenere: “a nessuna persona seria verrebbe in mente di obbligare tutte le famiglie benestanti a prendersi in casa un certo numero di figli di famiglie povere in maniera da dare a tutti un sostegno e un tenore di vita tali da raggiungere il livello medio della collettività” (cap. 6). Mantenendo l’equazione, potremmo formularne, a mo’ di provocazione, una vera: se chi è ricco dovesse sostenere (come da sempre postulano le sinistre, attraverso una tassazione fortemente progressiva) chi lo è meno, laddove la produzione di ricchezza non è un fatto individuale, ma sempre sociale e collettivo, perché questo non dovrebbe valere anche nei rapporti tra Stati? ↩︎
  4. Classico delle destre è il cosiddetto argomento della “libera scelta” del soggetto migrante, questo è quello che scrive Wagenknecht nel suo libro: “Come mostrano gli esempi, esistono due tipi di migrazione, che non vanno confusi. Nel primo, le persone sono obbligate ad allontanarsi dalla propria terra perché costrette o perché, a causa di persecuzioni o guerre, non possono più vivere sicure. Nell’altro, parliamo di individui che emigrano di propria iniziativa, nella speranza di una vita migliore in un altro luogo” (cap. 6). ↩︎
  5. “Il più importante gruppo d’interesse, che da sempre guarda con favore all’immigrazione, per la cui promozione e facilitazione esercita forti pressioni e prende spesso in mano addirittura il reclutamento degli stessi lavoratori all’estero, è quello degli imprenditori” (cap. 6). ↩︎
  6. Sempre dall’intervista sopracitata https://archive.is/MoK6C#selection-2957.8-2957.19 ↩︎

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