Traduciamo dalla rivista francese Contretemps un articolo di Noura Erakat, avvocata per i diritti umani, co-editrice di Jadaliyya e docente alla Rutgers University di New Brunswick (Canada). Nel 2020 ha pubblicato Justice for Some. Law and the Question of Palestine. In questo articolo Noura Erakat ripercorre le varie tappe che hanno segnato l’offensiva genocida dello Stato coloniale di Israele contro i palestinesi a Gaza, ma anche le mobilitazioni che, in diverse forme, hanno riguardato tutto il mondo e le iniziative legali volte a porre fine al genocidio e far rispondere Israele dei suoi crimini.
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Giorno dopo giorno, da un anno a questa parte, l’esercito israeliano sta conducendo un’implacabile campagna di sterminio contro i palestinesi di Gaza. Giorno dopo giorno, le persone di buona coscienza cercano di porre fine a questo genocidio.
367° giorno di genocidio. Ho preso l’abitudine di contare i giorni in questo modo, con l’orribile certezza che oggi lo sterminio sistematico dei palestinesi nella Striscia di Gaza continua, e con l’inscalfibile determinazione di vederne la fine, oggi stesso.
Ho iniziato questa pratica il giorno 6, quando è stata diffusa la notizia che l’unica potenza nucleare del Medio Oriente aveva sganciato 6.000 bombe in meno di una settimana su una popolazione assediata, composta per lo più da persone rifugiate.
Anche prima di questa notizia avevamo capito che questo attacco non avrebbe avuto precedenti. L’avevamo capito pur sapendo che la colonizzazione della Palestina da parte di Israele aveva già creato un dispositivo di annientamento vecchio ottant’anni; pur sapendo che Israele aveva già lanciato grandi offensive durante la guerra del 1948, la guerra del 1967 e l’invasione del Libano del 1982; pur sapendo che aveva imprigionato Gaza in un blocco militare dal 1993, imposto un assedio totale dal 2007 e iniziato una campagna sistematica di offensive su larga scala dal 2008.
Avevamo capito che questa volta le cose erano di portata e natura diverse. Mosso da un fanatico desiderio di vendetta, unito al calcolo opportunistico e senza scrupoli di portare a termine la Nakba, Israele, anche grazie al sostegno di una superpotenza globale, ha scatenato una campagna spietata per punire e distruggere un popolo che si rifiuta di scomparire.
Avevamo capito tutto ciò sin dal 6° giorno e poi, quello stesso giorno, verso mezzanotte, l’esercito israeliano aveva ordinato a 1,1 milioni di palestinesi di spostarsi verso sud, oltre il fiume Wadi Gaza. Il 7° giorno, lo studioso dell’Olocausto Raz Segal parlava a tal proposito di “un caso da manuale di genocidio”. L’8° giorno, 800 ricercatori di diritto hanno lanciato lo stesso allarme. Il 10° giorno è stato bombardato l’ospedale Al-Ahli. L’11°, 400 attiviste e attivisti ebrei hanno occupato il Campidoglio negli Stati Uniti, mentre il 12° gli esperti delle Nazioni Unite mettevano in guardia contro un genocidio.
Il 27°, gli attivisti di Oakland, in California, hanno impedito l’attracco di una nave che trasportava munizioni destinate a Israele. Il 28° giorno, a Washington DC 300.000 manifestanti hanno chiesto un cessate il fuoco immediato. Giorno 31°: gli attivisti di Tacoma, Washington, hanno impedito nuovamente l’attracco di una nave carica di munizioni. Giorno 33°: tre organizzazioni palestinesi per i diritti umani hanno presentato una petizione alla Corte penale internazionale accusando Israele di genocidio. Giorno 35°: a Londra, quasi mezzo milione di manifestanti hanno chiesto un cessate il fuoco. Giorno 37°: il Centro per i Diritti Costituzionali cita in giudizio il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il suo Segretario agli Esteri Antony Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd J. Austin perché pongano fine alla loro complicità nel genocidio.
Tutto questo è avvento prima del primo e unico cessate il fuoco che ha facilitato lo scambio diplomatico di prigionieri tra i giorni 48° e 54°.
Quattro settimane dopo, il giorno 83°, il Sudafrica ha presentato la sua petizione che accusa Israele di non rispettare la Convenzione sul genocidio. Questa iniziativa è parte integrante di quel movimento di rivolta globale animato da persone che pure non hanno bisogno di un tribunale per sancire ciò a cui stanno assistendo in tempo reale. Non hanno bisogno di precedenti legali per condannare la distruzione del 60% dei palazzi residenziali di Gaza, l’annientamento di tutte le principali università, la paralisi di 36 ospedali, l’attacco a una moschea di 1400 anni e alla terza chiesa più antica del mondo.
Non c’era bisogno di un tribunale per stabilire che l’uccisione di una media di 247 palestinesi al giorno, tra cui due madri ogni ora, e l’amputazione di uno o più arti di dieci bambini ogni giorno, non sono il risultato di una grottesca “guerra urbana”. Tuttavia, troppi Stati membri delle Nazioni Unite avevano bisogno di essere richiamati ai loro obblighi e doveri dal loro principale organo giudiziario, per costringerli a limitare l’azione di uno Stato genocida e dei suoi sostenitori.
Il 111° giorno, dei 17 giudici della Corte Internazionale di Giustizia, 15 hanno ritenuto “plausibile” che Israele stesse perpetrando un genocidio. Si sono trovati d’accordo sul fatto che la legge proibisce ciò che chiunque sia saggio e giusto, “il sale della terra”, non può che condannare, ossia che la distruzione di un popolo per scopi politici, per aumentare il controllo su un territorio, per imporre unilateralmente la sovranità dei coloni, o per qualsiasi altra ragione, non è mai accettabile.
Ma questa clamorosa decisione si è scontrata con la disperante realtà dell’assenza di qualsiasi meccanismo di applicazione nel sistema del diritto internazionale, tranne che nel caso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, i cui cinque membri permanenti detengono un veto che può – e lo fa – opporsi alla volontà del mondo intero.
Nonostante ciò, l’opinione pubblica mondiale è stata irremovibile e ha continuato a lottare senza tregua per la pura e semplice giustizia. Se le istituzioni internazionali non potevano essere mobilitate efficacemente per fermare il genocidio, lo avrebbero fatto le istituzioni nazionali. Giorno 121°: diversi fondi pensione danesi decidono di disinvestire da aziende israeliane; giorno 122°: il governo vallone in Belgio decide di sospendere due licenze di esportazione di armi; giorno 129°: una corte d’appello olandese vieta il trasferimento di tutti i pezzi di ricambio per gli aerei F-35; giorno 246°: la Colombia impone un embargo sull’energia. In Inghilterra e negli Stati Uniti, gli attivisti scavalcano i loro governi per bloccare le fabbriche di Elbit, il più grande produttore privato di armi destinate a Israele, a Tamworth, Oldham e Cambridge.
Giorno 193°: le studentesse e gli studenti universitari statunitensi, che protestano contro la complicità delle loro istituzioni nel genocidio, attirano l’attenzione nazionale mettendo in piedi la protesta delle acampadas nella Columbia University. Il giorno 209° dall’inizio del genocidio sono state organizzate oltre 150 acampadas in tutto il mondo. Questi studenti non si sono fatti scoraggiare dalla brutale repressione che le loro stesse istituzioni gli hanno inflitto per aver osato opporsi alle peggiori atrocità che uno Stato possa commettere e per aver colto il potenziale dell’azione organizzata per cambiare il corso della storia.
Eroicamente, le studentesse e gli studenti in giornalismo hanno colmato il vuoto lasciato da un’intera categoria professionale e i laureandi hanno prodotto nuove riflessioni sulla Nakba che le più importanti pubblicazioni giuridiche hanno cercato di censurare, senza successo. Il giorno 228°, negli Stati Uniti le assemblee hanno approvato 175 risoluzioni municipali a favore del cessate il fuoco; e il giorno 235°, 100.000 persone hanno circondato la Casa Bianca con una linea rossa umana, in risposta a quella che il governo Biden aveva minacciato di erigere intorno all’ultima città ancora in piedi di Gaza, prima di ritrattare.
Quelle qui elencate non sono che una piccola parte delle azioni intraprese su scala globale per fermare il genocidio; è inoltre fondamentale menzionare la fermezza mantenuta dai palestinesi a Gaza, senza la quale la solidarietà internazionale avrebbe ben poco senso. Ma tutto questo non è bastato a fermare il genocidio.
Ad oggi, giorno 367° dall’inizio del genocidio, quasi 42.000 palestinesi sono stati uccisi – tra cui 20.000 bambini, sepolti, introvabili e detenuti. I nomi dei minori di un anno riempiono 14 delle 649 pagine del documento che cerca di preservare la memoria di queste vittime. Attualmente, 902 famiglie sono completamente scomparse dal registro civile. Secondo la rivista medica The Lancet, il numero effettivo di morti causati dal programma coloniale che impone carestia, malattie e distruzione delle condizioni necessarie alla sopravvivenza è di 186.000 e raggiungerà i 335.000 entro la fine dell’anno.
Il mio desiderio
È quello di viaggiare
Raggiungere un ospedale
E ricevere una protesi al braccio.
Per poter tenere un pallone in mano
Per poter giocare.
Per poter scrivere.
Per poter mangiare.
Eppure, a tutt’oggi, Israele non si è fermato. Il giorno 355° ha intensificato la sua campagna con un attacco terroristico in Libano che ha trasformato gli esseri umani in bombe ambulanti. Israele ha continuato a bombardare indiscriminatamente le aree civili utilizzando lo stesso cliché razzista dello “scudo umano” che sarebbe dovuto essere oramai inutilizzabile dopo che l’infrastruttura civile di Gaza è stata ridotta a 26 milioni di tonnellate di macerie e detriti. Il giorno 359°, dopo gli attacchi missilistici iraniani su Israele, il rischio di una guerra regionale e potenzialmente globale diventa sempre più reale.
Oggi, giorno 367°, è quasi impossibile non provare un senso di disperazione. “La catastrofe non è ciò che deve ancora avvenire, la Nakba non è il passato”, ci dice la storica Sherene Seikaly. Non siamo sull’orlo dell’apocalisse, [ci siamo dentro e] abbiamo costruito la vita nelle sue pieghe. Nelle sue riflessioni sulla ricostruzione del mondo, Octavia Butler ci ricorda che “tutto ciò che tocchiamo, lo trasformiamo. Tutto ciò che trasformiamo, ci trasforma”.
I nostri sforzi collettivi hanno lasciato un segno indelebile: gli Stati Uniti e Israele sono isolati a livello internazionale, la loro influenza è ridotta unicamente all’uso della forza nuda e cruda, priva del minimo argomento legale o etico a suo favore. La loro devastazione senza limiti è pari solo alla loro rovina morale, cosa che salta agli occhi per chiunque li tenga aperti.
Noi stessi siamo cambiati per sempre: occhi spalancati, pronti a sfidare le autorità mediatiche, sociali e politiche che cercano in tutti i modi di ridurci a zombie storditi dall’intrattenimento della cultura di massa; occhi spalancati sul fatto che l’imperialismo plasma ogni dettaglio della nostra vita quotidiana; sul fatto che il sionismo è una forma di razzismo e che una Palestina libera ha il potenziale di liberare tutte e tutti noi.
Dobbiamo riconoscere la nostra disperazione, darle un nome, per evitare che i suoi abissi oscuri trasformino i nostri spazi di intervento in ferite e luoghi tossici. Dobbiamo ricordare che la capitolazione non è un’opzione e che la storia si estende anche oltre il tempo di un’intera epoca.
Dobbiamo guardare alle e ai palestinesi per trovare la nostra migliore linea d’azione e la nostra ispirazione, a loro che, per 76 anni, hanno più volte subito raffiche di colpi e che ogni volta si sono rialzati come una fenice, per ricostituirsi e continuare a forgiarsi un futuro nel fuoco del sacrificio più difficile e nella certezza della vittoria collettiva. Il genocidio minacciava di cancellare la Palestina, ma ha portato al fatto che oggi la Palestina vive in ognuno di noi, è immortale. Niente e nessuno tra noi sarà più lo stesso.