Skip to content
Me-Ti

PERCHÉ “POPOLO”. IN CHE SENSO USIAMO QUESTA CATEGORIA

Ex Opg "Je So' Pazzo"

Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato

Pubblichiamo un testo scritto nel 2016 dal collettivo dell’Ex OPG “Je So’ Pazzo”, che riflette sull’utilizzo della categoria popolo tanto nella tradizione della sinistra e comunista, quanto nella battaglia politica quotidiana.

Introduzione. Di cosa parliamo quando parliamo di popolo

Prendiamola alla larga, dal livello più generale, e iniziamo con l’etimologia, che torna sempre utile (la trovate qui). Come vedete, popolo deriva da populus, che sembra indicare il “mettere assieme”, il “riunire”; ha una connessione con il greco polis (“città”, da cui deriva però anche “politica”), e in diverse lingue con i “molti”, i “più”. La sua etimologia sembra dunque indicare un movimento di ricomposizione (dunque “popolo” non è qualcosa che sta già là), e soprattutto sembra indicare non una totalità, ma una partizione fra una maggioranza o una minoranza. D’altronde “populus” traduce il greco “demos”, che è alla base della democrazia come forma di governo dei “molti”, contrapposto al potere/comando dei “pochi” (oligarchia) o dei “migliori” (aristocrazia)… Ma non ci dilunghiamo su come il popolo veniva concepito in Grecia e a Roma, restiamo invece ancora sulle definizioni del dizionario, perché sono molto rivelatrici. Le trovate qui.

Da queste definizioni della Treccani si evince che “popolo” è un termine molto stratificato, che indica volta per volta diverse cose, come: 

  • un gruppo dotato di alcuni caratteri in comune (di tipo linguistico-storico-culturale), cosa che lo spinge verso il concetto di nazione
  • un gruppo dotato di alcuni diritti, norme e istituzioni in comune, cosa che lo spinge verso il concetto di cittadinanza (e a quello a esso connesso, almeno in epoca moderna, di sovranità); 
  • l’insieme dei cittadini che abitano un determinato territorio, cosa che lo spinge verso il concetto di popolazione
  • un gruppo che ha in comune un credo e un modo di sentire e stare assieme, cosa che lo spinge verso il concetto di comunità
  • lo strato più numeroso ma economicamente più svantaggiato di un paese o di una città, cosa che lo spinge verso il concetto di proletariato

Insomma, il concetto di “popolo” è al centro di una rete concettuale molto ampia, che oscilla costantemente fra antropologia, sociologia, politica, religione. Quello che qui ci interessa notare è che:

  • “popolo” non è mai un concetto puramente sociologico – non è cioè la semplice popolazione: il popolo è sempre qualcosa che si fa, che si istituisce, che si riconosce;
  • “popolo” non è nemmeno necessariamente un concetto “escludente” – non è cioè la nazione, perché può includere al suo interno differenze di razza, di lingue, di culture, accomunate dallo stesso credo (è quello che accade quando parliamo del “popolo cristiano” o del “popolo della sinistra”) o dalla stessa, bassa, condizione sociale (“gente del popolo”, “popolano”). 

Insomma, quando le più diverse tradizioni politiche (giacobini francesi, populisti russi, fascisti italiani ecc.) hanno provato ad appropriarsi di tale concetto, hanno utilizzato uno o più significati che gli erano disponibili, piegandolo nella direzione che gli conveniva e che meglio si confaceva ai loro scopi. Per semplificare: siccome “popolo” indica allo stesso tempo la totalità unita da una lingua comune, da tradizioni e ordinamenti, e la parte che in questa totalità è in posizione subalterna politicamente o socialmente, la destra spinge sul primo senso, la sinistra sul secondo. Ma la plurivocità del concetto non per questo è stata esaurita, e anzi resta terreno di scontro egemonico fra i diversi attori politici (questo vale anche per altri termini, si pensi a “democrazia” o “repubblica”). 

Dunque chi dice che parlare di “popolo” vuol dire automaticamente usare una categoria conservatrice o reazionaria, è in torto. Chi dice invece che è una categoria “infida”, che si può prestare a operazioni anche opposte, dice invece una cosa vera. Ma vera a metà: perché la lotta politica è anche lotta sul significato delle parole, che non possono essere lasciate, soprattutto se “funzionano” (perché “immediate” e “diffuse”), nelle mani del nemico.

Infine da queste prime considerazioni possiamo anche vedere come un utilizzo progressivo del termine non faccia torto né ai significati del dizionario, né al senso comune. Non stiamo né inventando dei significati che “popolo” non possedesse già, né usando delle accezioni rare del termine che le persone non possano capire. Stiamo semplicemente privilegiando il suo senso di movimento, di partizione, di comunità proprio nella direzione di quello che il nostro soggetto di riferimento di solito intende.  

Fatta questa premessa generale, veniamo al problema che più ci preme, che possiamo suddividere in due questioni collegate ma specifiche: 

1. qual è l’uso che la sinistra e i comunisti hanno fatto della coppia “popolo” e “popolare”?

2. perché oggi nella battaglia politica quotidiana (dunque attenzione: né nell’analisi scientifica né nella battaglia politica in generale, ma in questi anni e a fini prettamente politici), usiamo e sentiamo il bisogno di usare il termine di “popolo”? E cosa intendiamo, a quali soggetti o gruppi ci riferiamo? 

Andiamo con ordine.  

1. Il “popolo” nella tradizione della sinistra e dei comunisti

Questa parte ha l’intento di fornire solo delle coordinate di massima, perché non è chiaramente possibile ricostruire qui nel dettaglio tutta la storia dell’uso della categoria di “popolo” da parte dei compagni. Cerchiamo di fornire solo alcuni esempi significativi a partire dai quali si può avere una conoscenza complessiva della questione. 

Il concetto di popolo in Marx. Se il tema del “popolo” emerge durante il Seicento, quando si vengono a costruire gli stati assolutistici – che si costruiscono appunto rompendo i legami fra popolazioni locali e nobiltà, e legando l’insieme del popolo nazionale al sovrano – è solo con la Rivoluzione Francese che il problema del popolo si pone in modo chiaro. La maggiore acquisizione della Rivoluzione è infatti proprio quella di spostare il luogo della sovranità dal Re al Popolo: idea che era più volte comparsa nella storia, ma che solo con la Rivoluzione – e con lo sviluppo delle forze produttive dato dalla comparsa della borghesia – trionfa.  

Durante tutto l’800 il tema del popolo si afferma nel dibattito culturale e politico. La formazione storico-sociale capitalistica non può infatti più fare a meno del “popolo” come sorgente della sovranità: i governi non sono più legittimati da Dio o dalle discendenze dinastiche (per quanto queste continuino a esistere), ma dal fatto che rappresentano la totalità del popolo, la sua storia, la sua identità, la sua proiezione sul futuro. In Germania il dibattito sul popolo è molto forte, e con l’idealismo tedesco, in particolare Fichte ed Hegel, il tema diventa rovente (ricordiamo che il “popolo tedesco” non aveva compiuto ancora la sua unificazione statale, e viveva diviso in una serie di staterelli quasi feudali). 

Il giovane Marx riprende da Hegel molta della sua riflessione sul concetto di popolo. Nei primi scritti marxiani il termine compare spesso, nel senso di corpo unitario, organico, portatore di una propria razionalità, eticità e volontà, come testimonia l’utilizzo di espressioni quali “spirito storico del popolo”. Anche per Marx, come per era stato per Hobbes prima e per i rivoluzionari francesi poi, la rappresentanza politica “non va concepita come rappresentanza di un qualunque elemento che non sia il popolo stesso”, ma come “autorappresentanza” di un popolo “che non vuole far valere singoli bisogni contro lo Stato, ma che ha per massimo bisogno quello di far valere lo Stato medesimo […], come suo proprio Stato” (vedi Annali Franco-Tedeschi). 

Per Marx la costituzione politica proviene non dall’Idea, dallo Spirito o dallo Stato, ma dal suo fondamento reale: il popolo appunto. Marx finisce per prendersela anche con Hegel. Il popolo non è infatti un’astrazione, ma è il dato reale esistente, “il concreto” che precede lo stesso concetto di Stato, e che deve essere inteso come il fondamento:

“È necessario che […] il reale sostegno della costituzione, il popolo, diventi il principio della costituzione. […] Il potere legislativo ha fatto […] le grandi rivoluzioni organiche generali […] precisamente perché il potere legislativo è stato il rappresentante del popolo, della volontà generale”. Bisogna riconoscere nel popolo il fondamento reale dello Stato politico e dei suoi poteri: “come non è la religione che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la religione, così non la costituzione crea il popolo, ma il popolo la costituzione”.

La posizione di Marx è forte, ma anche abbastanza tipica delle correnti democratiche (la troverete anche in alcuni scritti del Black Panther Party). Ma già nel 1843, con l’Introduzione alla Critica del diritto pubblico di Hegel, la nozione di popolo inizia ad essere abbandonata in virtù di quella di proletariato. Il proletariato non è la semplice sostituzione del popolo, è una parte del popolo, quella maggioritaria, quella più povera, priva dei mezzi di produzione. Marx non smetterà mai di affinare questa categoria, perché – nel suo contesto storico – quello che gli interessa non è solo riprendere l’istanza di carattere politico-democratico di sovranità popolare, “scoperta” e ormai imposta dalla Rivoluzione Francese, ma svilupparla e approfondirla, mostrando come sia intimamente connessa a quella di emancipazione sociale. Nel 1848, quando scrive, con Engels, il Manifesto, ha già chiaro questo schema in testa, tanto che il “popolo” non compare mai, e l’appello finale è non a caso il celebre “proletari di tutto il mondo unitevi”. Proprio perché il punto di Marx è quello di evidenziare che all’interno della categoria “infida” di popolo ci sono le classi sociali, con la loro intima conflittualità. 

D’altronde, quando in Francia i moti del 1848 vengono sconfitti – a causa del “tradimento” della borghesia che, preoccupata dall’avanzare del proletariato, si oppone al movimento generale – e Marx cerca di spiegare il perché del fallimento rivoluzionario, lo trova proprio in una scarsa comprensione da parte della coalizione democratico-repubblicana-radicale della contraddittorietà inevitabile che c’è in seno al popolo. L’errore di questi piccolo-borghesi è di scambiare questa finzione linguistica, il “popolo”, per qualcosa di reale, mentre di reale ci sono solo gli interessi di classe che spingono i vari settori del popolo a muoversi diversamente. “In tutta la Francia, o per lo meno nella maggioranza dei francesi, essi [i repubblicani] vedevano dei Citoyens con gli stessi interessi, le identiche vedute ecc. Questo era il loro culto del popolo” (cfr. Le lotte di classe in Francia). 

Pochi anni dopo, nel 18 brumaio, Marx insiste polemicamente:

“I democratici […], con tutto il resto della nazione che li circonda, costituiscono il popolo. Ciò che essi rappresentano è il diritto del popolo; ciò che li interessa è l’interesse del popolo. Essi non hanno dunque bisogno, prima di impegnare una lotta, di saggiare gli interessi e le posizioni delle diverse classi. […] Non hanno che da lanciare il segnale perché il popolo, con tutte le sue inesauribili risorse, si scagli sugli oppressori. Se poi, all’atto pratico, i loro interessi si rivelano non interessanti e la loro forza un’impotenza, la colpa è di quegli sciagurati sofisti che dividono il popolo indivisibile in diversi campi nemici”. 

Insomma Marx dice che quella del “popolo” è un’ideologia, che non corrisponde alla materialità delle cose, fatte di lotte di classe all’interno di una società. Ma attenzione: anche quella di “proletariato”, come tutte le categorie, può diventare un’ideologia, e infatti nel 1850 Marx se la prende con alcuni esponenti della Lega dei Comunisti, come il “volontarista” e “sentimentalista” Willich: «I democratici hanno fatto della parola “popolo” una parola sacra, voi fate lo stesso con la parola “proletariato” e come per i democratici, anche per voi le parole sostituiscono i fatti». E proprio quando andrà a vedere i “fatti”, ad esempio commenterà nel 1871 la vicenda della Comune ne La guerra civile in Francia, Marx ritroverà la categoria di popolo (e di “popolo armato”) per esprimere l’alleanza sociale della maggioranza opposta alla borghesia internazionale (com’è noto infatti la Comune fu schiacciata da francesi e tedeschi insieme, nonostante fossero in guerra).  

In sintesi: è corretto affermare che la categoria di popolo, pur essendo presente “positivamente” nel giovane Marx, non svolge alcun ruolo concettualmente rilevante nella sua opera e anzi la critica di Marx finisce per mostrarne, sia teoricamente che praticamente, la contraddittorietà e l’incongruenza. D’altronde in quel contesto storico-sociale, in cui “popolo” era la parola d’ordine della borghesia di tutte le sfumature politiche, la battaglia teorica e politica doveva essere portata contro tutti i concetti che mistificavano la presenza delle classi e la loro lotta, e permettevano invece di mostrare tutta la stratificazione sociale – non solo “borghesia e proletariato”, ma sottoproletariato, proletariato, piccola borghesia, borghesia delle professioni, borghesia produttiva, rentiers

Tuttavia nel pensiero e nell’agitazione politica dei socialisti dell’Ottocento la parola e il riferimento al popolo non scompare affatto (Engels parla in diverse circostanze di “popolo lavoratore”, per indicare il proletariato in senso largo, compreso quindi di artigiani, di disoccupati o sottoccupati etc). Anzi torna con forza soprattutto quando si parla dell’espansione del capitalismo che ingloba nuovi territori e popoli (quelli che diventeranno i “popoli oppressi”).   

Il concetto di popolo in Lenin. Lenin utilizza in tantissime occasioni la categoria di popolo, che non a caso si attaccherà a tutte le denominazioni della nuova repubblica sovietica (si pensi ai “commissari del popolo”, al “tribunale del popolo” ecc.). Lenin è forse, molto più di Marx, il compagno che forma il canovaccio su cui si muoverà poi la tradizione comunista (questo anche per ragioni storiche: rispetto a Marx era spinto a intervenire più politicamente che teoricamente, poteva dare per scontata l’elaborazione precedente che aveva ormai fatto “apparire” il proletariato ecc.). Semplificando, Lenin fa intervenire la categoria di “popolo”:

  • quando parla delle varie classi della società, dei loro rapporti e delle loro forme rappresentative (Parlamento ecc.);
  • quanto parla di “diritto all’autodeterminazione dei popoli” e agli effetti dell’imperialismo su scala internazionale.    

a) Rispetto al primo punto, Lenin intende da un lato criticare tutti i democratici, i radicali, i piccolo borghesi, gli anarchici, che vedono il “popolo” come un’unità, che sia spontanea e “naturale” oppure “artificiale” (prodotta cioè dal sistema rappresentativo), da un altro lato intende criticare tutti i settari di “sinistra” che pretendono di fare a meno del “popolo”, sia politicamente che teoricamente, per confidare e concentrarsi sul solo proletariato. Contro gli anarchici, Lenin dice che non c’è alcuna spontaneità del popolo, alcuna naturalità (il popolo è sempre una costruzione sociale, quindi un ricettacolo di idee della borghesia, di traduzioni, di residui di vecchi modi di pensare), mentre contro i radicali e i piccolo borghesi Lenin combatte una battaglia serrata, legata alla sua critica del parlamentarismo, della democrazia borghese ecc. Il popolo non può mai essere rappresentato nelle istituzioni borghesi, viene solo ingannato: tutte le retoriche che mirano a far apparire il “popolo” come sovrano sono solo mistificazioni della realtà di classe – sovrana è soltanto la borghesia, e precisamente l’alleanza fra i padroni delle imprese, dei terreni e dei capitali bancari.  

Interessante però è anche la critica che Lenin rivolge agli “estremisti di sinistra”, che hanno una visione poco dialettica e mobile della realtà. Lenin chiarisce che il “proletariato” (Lenin utilizza spesso il termine come sinonimo di “classe operaia”) è solo una parte della popolazione, peraltro non sempre numericamente maggioritaria, e che per vincere ha bisogno dell’alleanza con gli altri sfruttati e persino con elementi della piccola borghesia, che si sta via via proletarizzando a causa della nuova fase imperialistica. Nel 1920, ai comunisti di sinistra (Bordiga e soci), Lenin ricorda – dall’alto della sua esperienza – che 

“Il capitalismo non sarebbe capitalismo, se il proletariato puro non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletariato e il semiproletariato (colui che si procura di che vivere solo a metà, mediante la vendita della propria forza lavoro), tra il semiproletariato e il piccolo contadino (e il piccolo artigiano, l’artiere, il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se, in seno al proletariato stesso, non vi fossero delle suddivisioni in strati più o meno sviluppati, delle suddivisioni per regioni, per mestiere, talvolta per religioni e così di seguito. E da tutto ciò deriva la necessità, assoluta e incondizionata per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso e per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi e compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli produttori. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere” (cfr. L’estremismo malattia infantile del comunismo).

Queste idee di Lenin non sono affatto giustificazioni delle scelte politiche del momento (la NEP, Nuova Politica Economica, interpretata dalla “sinistra” come un ritorno al capitalismo perché dava spazio alla piccola borghesia), ma vengono da una precisa impostazione teorica maturata nel tempo. Lenin pensa – dopo aver analizzato la situazione delle classe in Russia – che la classe operaia rappresenti per motivazioni oggettive e soggettive, la classe più rivoluzionaria, più disposta e addestrata al socialismo, e debba dunque essere il primo soggetto di riferimento del Partito. Ma che per vincere abbia bisogno di allearsi con i contadini, la classe più numerosa nella Russia del tempo, e con alcuni strati piccolo-borghesi via via espropriati dai processi di concentrazione del capitale. A questo proposito si veda il celebre Stato e Rivoluzione, del 1917, che spiega qual è la funzione dell’organizzazione comunista dentro la società: 

“Educando il partito operaio, il marxismo educa una avanguardia del proletariato, capace di prendere il potere e di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di organizzare il nuovo regime, d’essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell’organizzazione della loro vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia”. E aggiunge: “Merita un’attenzione particolare l’osservazione straordinariamente profonda di Marx che la distruzione della macchina burocratica e militare dello Stato è ‘la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare’. Questo concetto di rivoluzione “popolare” sembra strano in bocca a Marx, e i plekhanovisti e i menscevichi russi, questi seguaci di Struve che vogliono farsi passare per marxisti, potrebbero dire che questa espressione di Marx è un “lapsus”. Essi hanno deformato il marxismo in modo così piattamente liberale che nulla esiste per loro all’infuori dell’antitesi: rivoluzione borghese o rivoluzione proletaria, e anche quest’antitesi è da essi concepita nel modo più scolastico che si possa immaginare. […] Siamo costretti a ripeterlo ancora: gli insegnamenti di Marx, basati sullo studio della Comune, sono stati dimenticati così bene che il “socialdemocratico” contemporaneo (si legga: il rinnegato contemporaneo del socialismo) è veramente incapace di concepire altra critica del parlamentarismo che non sia quella degli anarchici o dei reazionari. Senza dubbio la via per uscire dal parlamentarismo non è nel distruggere le istituzioni rappresentative e il principio dell’eleggibilità, ma nel trasformare queste istituzioni rappresentative da mulini di parole in organismi che “lavorino” realmente”.

Per questo il comunista deve essere, diceva già Lenin nel Che fare? (1902), un tribuno del popolo, ovvero una persona che sia a contatto con le masse, e sia in grado di farsi portavoce dei loro bisogni, di trasformare qualsiasi questione in motivo di attacco all’ordine capitalista:

“L’ideale del socialdemocratico non deve essere il segretario di una trade-union, ma il tribuno popolare, il quale sa reagire contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si manifesti e qualunque sia la classe o la categoria sociale che ne soffre, sa generalizzare tutti questi fatti e trarne il quadro completo della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico; sa, infine, approfittare di ogni minima occasione per esporre dinanzi a tutti le proprie convinzioni socialiste e le proprie rivendicazioni democratiche, per spiegare a tutti l’importanza storica mondiale della lotta emancipatrice del proletariato […] Dobbiamo “andare fra tutte le classi della popolazione” come teorici, come propagandisti, come agitatori e come organizzatori. Non vi è dubbio che il lavoro teorico dei socialdemocratici deve essere rivolto allo studio di tutte le particolarità della situazione sociale e politica delle varie classi […] Dobbiamo saper organizzare delle riunioni anche con quei rappresentanti di qualsiasi classe della popolazione che vogliono ascoltare un democratico. Perché non è socialdemocratico colui il quale di fatto dimentica che “i comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario” [qui Lenin cita il Manifesto] e che, per conseguenza, noi dobbiamo esporre e sottolineare i nostri compiti democratici generali dinanzi a tutto il popolo, senza nascondere neppure per un momento le nostre convinzioni socialiste. Non è socialdemocratico chi dimentica, in pratica, il proprio dovere di essere alla testa di tutti quando si deve porre, approfondire e risolvere qualsiasi questione democratica generale. […] Un rivoluzionario fiacco, esitante nelle questioni teoriche, con un orizzonte limitato, che giustifichi la propria inerzia con la spontaneità del movimento di massa, più rassomigliante a un segretario di trade-union che non a un tribuno del popolo, incapace di presentare un piano ardito e vasto che costringa al rispetto anche gli avversari, un rivoluzionario inesperto e malaccorto nel proprio mestiere (la lotta contro la polizia politica), può forse chiamarsi un rivoluzionario? No. È solo un povero artigiano”.

Insomma, come Lenin aveva già scritto, il compito del vero capo socialista è quello di “destare in tutti gli strati del popolo più o meno coscienti la passione delle denunce politiche. Se le voci che si levano per smascherare il regime sono oggi così deboli, rare e timide, non dobbiamo impressionarcene. Ciò non è affatto dovuto alla rassegnazione generale agli arbitri polizieschi. È dovuto al fatto che gli uomini capaci di fare delle denunce, e pronti a farle, non hanno una tribuna dalla quale poter parlare, non hanno un pubblico che ascolti e approvi appassionatamente gli oratori; al fatto che essi non vedono da nessuna parte nel popolo una forza alla quale valga la pena di rivolgersi per protestare contro «l’onnipotente» governo russo… Abbiamo oggi la possibilità e il dovere di creare una tribuna da cui tutto il popolo possa denunciare il governo zarista”. 

b) Ma Lenin parla di “popolo” anche quando si riferisce ai popoli oppressi. D’altronde Lenin aveva davanti la tragedia della prima guerra mondiale, in cui la questione delle nazionalità era decisiva: sia perché era stato proprio il “diritto dei popoli all’autodeterminazione” a fornire un alibi alle grandi potenze occidentali contro l’impero austro-ungarico, sia perché a fine guerra mondiale si creavano nuovi stati e diversi popoli spingevano, nella situazione di caos, per creare un proprio stato. Lenin presenta qui la sua posizione sull’autodeterminazione dei popoli.

In sostanza Lenin pensa che, nonostante anche nei popoli oppressi (direttamente conquistati oppure colonizzati) si registrino differenze di classe fra i vari strati della popolazione, il proletariato – lo strato più oppresso – possa mettersi alla guida di una lotta di liberazione che trascini anche altri strati sociali schiacciati per i motivi più diversi (non possono esercitare la loro religione, non possono parlare la loro lingua, non possono accedere a cariche pubbliche o esercitare il potere democratico ecc.). Da questo punto di vista, la creazione di nuovi stati non è necessariamente contraria all’internazionalismo, né la rivendicazione democratica è contraria al socialismo. Anzi: 

“Il proletariato non può vincere se non attraverso la democrazia, cioè realizzando completamente la democrazia e presentando, ad ogni passo della sua lotta, rivendicazioni democratiche nella formulazione più precisa. È assurdo contrapporre la rivoluzione socialista e la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo ad una delle questioni della democrazia, nel nostro caso alla questione nazionale. Dobbiamo unire la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo al programma rivoluzionario e alla tattica rivoluzionaria per tutte le rivendicazioni democratiche: repubblica, milizia, elezione dei funzionari da parte del popolo, parità di diritti per le donne, autodeterminazione dei popoli, ecc. Finché esiste il capitalismo, tutte queste rivendicazioni sono realizzabili soltanto in via d’eccezione e sempre in forma incompleta, snaturata. Appoggiandoci alla democrazia già attuata, rivelando che essa è incompleta in regime capitalista, noi rivendichiamo l’abbattimento del capitalismo, l’espropriazione della borghesia, come base indispensabile per l’eliminazione della miseria delle masse e per l’introduzione completa e generale di tutte le trasformazioni democratiche. Alcune di queste trasformazioni saranno iniziate prima dell’abbattimento della borghesia, altre nel corso di questo abbattimento, altre ancora dopo di esso. La rivoluzione sociale non è un’unica battaglia, ma tutto un periodo di battaglie per tutte le questioni concernenti le trasformazioni economiche e democratiche, le quali saranno portate a compimento soltanto con l’espropriazione della borghesia. Precisamente in nome di questo scopo finale, dobbiamo dare una formulazione coerentemente rivoluzionaria ad ogni nostra rivendicazione democratica. È perfettamente possibile che gli operai di un determinato paese abbattano la borghesia prima dell’attuazione completa anche di una sola riforma democratica fondamentale. Ma è assolutamente inconcepibile che il proletariato, come classe storica, possa vincere la borghesia se a questo non si sarà preparato attraverso l’educazione nello spirito del democratismo più coerente e più decisamente rivoluzionario”. 

Riconoscere e intervenire sulla divisione fra popoli dominanti (borghesie nazionali che riescono, attraverso la redistribuzione e la persuasione, a “comprare” i rispettivi proletariati, o meglio i loro gruppi dirigenti) e popoli oppressi è dunque un punto sostanziale del programma comunista, perché implica il riconoscimento dell’imperialismo, e del suo antagonista, l’internazionalismo proletario – che non è qualcosa di spontaneo o di mistico, ma una costruzione politica sulla base oggettiva della necessità della fine dello sfruttamento in patria e fuori. 

Il concetto di popolo in Gramsci. Per accelerare questa ricostruzione saltiamo Gramsci, ma teniamo presente che è stato uno dei maggiori teorici marxisti della nozione di “popolo” e “popolare”: la sua stessa scoperta, quella dell’“egemonia”, era legata proprio al rapporto fra classe e popolo. Gramsci cerca di tradurre l’insegnamento leninista in un paese a capitalismo avanzato e con una società civile più ricca e sviluppata. L’egemonia non è altro che quella complessa strategia politica che fa sì che la classe operaia, avanguardia della rivoluzione, riesca a imporre sul resto della società la sua direzione, riesca cioè a farsi portavoce delle istanze della maggioranza e a far diventare le sue rivendicazioni, universali in sé, universali di fatto. Ciò può avvenire attraverso una conoscenza del senso comune delle masse, e una sua continua ridefinizione attraverso discorsi “popolari” e pratiche che il popolo possa da subito agire. Quanto la teoria gramsciana abbia influenzato il grande exploit del PCI, con la creazione di Case del Popolo e di “una sezione per ogni campanile” è evidente. 

Il concetto di popolo in Mao. Lo stesso tipo di operazione viene tentato da Mao, che è forse il teorico e il leader politico che più utilizza la nozione di popolo, e la cui riflessione fornisce alle Black Panther la cornice teorica della loro sperimentazione nei ghetti. Nel 1926 Mao scrive Le classi della società cinese, un articolo molto importante perché su quello si baserà la nuova strategia del Partito Comunista Cinese. Fino a quel momento il PCC si era infatti concentrato esclusivamente sulle fabbriche della costa est, strategia che si dimostrerà limitata quando nel 1927 le rivolte di Shangai e Canton (fra le poche città cinesi con un’alta presenza operaia) saranno soffocate. Mao si pone il problema di allargare lo sguardo e di non ragionare ideologicamente, quindi di prendere in considerazione il complesso della società cinese. Inizia così diversi scritti di inchiesta sulle classi sociali, e arriva a porre il problema politico in maniera sorprendente: 

“Quali sono i nostri amici e quali i nostri nemici? Ecco un problema che nella rivoluzione ha un’importanza capitale. Se nel passato tutte le lotte rivoluzionarie in Cina hanno avuto scarso successo, ciò si deve soprattutto all’incapacità dei rivoluzionari di raccogliere intorno a sé i veri amici per poter colpire i veri nemici. Un partito rivoluzionario è un dirigente di masse, e non si è mai dato il caso in cui una rivoluzione, incanalata da un partito rivoluzionario su una via sbagliata, sia stata coronata da successo. Per essere certi di non incanalare la rivoluzione su una via sbagliata e di raggiungere sicuramente il successo, dobbiamo preoccuparci di raggruppare intorno a noi i nostri veri amici per poter colpire i nostri veri nemici. Per distinguere i veri amici dai veri nemici, occorre analizzare, nei suoi tratti generali, la situazione economica delle classi che compongono la società cinese e l’atteggiamento di ognuna di esse nei riguardi della rivoluzione […] Tutti i signori della guerra, i burocrati, i compradores e i grandi proprietari terrieri in collusione con gli imperialisti, così come la parte reazionaria degli intellettuali ad essi asservita, sono nostri nemici. Il proletariato industriale è la forza dirigente della nostra rivoluzione. Tutto il semiproletariato e la piccola borghesia sono i nostri amici migliori. Quanto alla media borghesia, sempre esitante, può esserci amica l’ala sinistra, e la destra nemica; dobbiamo però stare sempre in guardia e non permettere alla media borghesia di disorganizzare il nostro fronte.”

Il compito del Partito Comunista è dunque di organizzare tutte le masse popolari, non solo gli operai, e mettersi alla guida di un “fronte unito di tutte le classi rivoluzionarie e di tutti i gruppi rivoluzionari”, come scriverà ancora nel 1949 (cfr. Sulla dittatura democratico popolare, dove aggiunge “la classe operaia è la classe più lungimirante e disinteressata, la classe dallo spirito rivoluzionario più coerente”). 

In ogni caso è importante notare che la definizione fra ciò che è popolo e ciò che non lo è, non passa per criteri sociologici (“popolo” è chi guadagna meno di tot), né per criteri di carattere nazionale o tradizionale (in Cina c’erano tantissime etnie e religioni diverse), ma passa per un criterio politico. Si veda il celebre scritto Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo del 1957:

“Per conoscere correttamente questi due tipi di differenti contraddizioni, tra noi e i nostri nemici e in seno al popolo, è necessario, innanzitutto, comprendere bene che cosa è il popolo e che cosa sono i nemici. La nozione di popolo acquista un significato diverso da paese a paese e in ogni paese da un periodo storico a un altro. Prendiamo, ad esempio, la situazione nel nostro paese. Durante la Guerra di resistenza contro il Giappone, tutte le classi, strati e gruppi sociali che partecipavano alla resistenza all’aggressione del Giappone appartenevano alla categoria del popolo, mentre gli imperialisti giapponesi, i traditori nazionali e gli elementi filogiapponesi erano i nemici del popolo. Durante la Guerra di liberazione, i nemici del popolo erano gli imperialisti americani e i loro lacchè, cioè la borghesia burocratica, i proprietari terrieri e i reazionari del Kuomintang che rappresentavano queste due classi; tutte le classi, strati e gruppi sociali che combattevano contro questi nemici appartenevano alla categoria del popolo. Nella fase attuale, nel periodo della costruzione del socialismo, tutte le classi, strati e gruppi sociali che approvano e sostengono l’opera di costruzione socialista e vi partecipano, formano il popolo, tutte le forze sociali e tutti i gruppi sociali che si oppongono alla rivoluzione socialista, che sono ostili all’edificazione socialista e cercano di sabotarla, sono i nemici del popolo”.

Ma Mao ha anche un’interessante concezione del rapporto fra popolo e governo: Mao pensa che dove può il popolo deve iniziare a fare esperienza di governo, a sperimentare subito forme di transizione al socialismo, a farsi da subito carico dei propri bisogni e di un’organizzazione sociale diversa, senza aspettare la presa del potere centrale (scelta azzeccata, visto che quando i comunisti cinesi vinceranno definitivamente, nel 1949, avranno dietro già 20 anni di esperienza di governo di regioni anche vaste, e saranno in grado di governare un paese immenso e popoloso senza affrontare ulteriori scontri o sommosse). Nello scritto Sulla politica concernente l’industria e il commercio del 1948 arriva persino a dare un’interessante definizione del legame che c’è fra popolo, esperienza e politica: 

“Ciò che noi chiamiamo esperienza, è il processo di applicazione di una politica e il suo risultato finale. È solamente attraverso la pratica del popolo, cioè attraverso l’esperienza, che possiamo verificare se una politica è giusta o errata, e determinare in quale misura è giusta e in quale misura è errata”.

Questa breve citazione è importante perché chiarisce che l’esperienza che guida la politica non è altro che la pratica del popolo. Secondo Mao nel “movimento socialista” il “popolo si educa e si modella da se stesso” (cfr. Intervento alla riunione del Soviet Supremo dell’URSS, 1957): il Partito ha dunque “solo” la funzione di persuadere, di indirizzare, di consigliare, ma deve anche saper imparare e mettersi all’ascolto di quello che le masse già sanno e fanno. 

Conclusioni. Potremmo ancora seguire l’apparizione della coppia “popolo” e “popolare” nella storia del comunismo e del socialismo dalla Seconda Guerra Mondiale alla caduta del muro di Berlino, momento a partire dal quale la categoria a sinistra viene meno (nel tentativo tutto postmoderno di ricercare nuove identità e nuovi soggetti meno “unitari”, meno legati alla “modernità”). Vale giusto la pena di ricordare come i regimi che si costituirono nell’Europa dell’Est assunsero non a caso le denominazioni di “repubbliche popolari” o di “democrazie popolari”. Si tentava così non solo di esaltare la differenza fra le democrazie borghesi e quelle socialiste, con le seconde viste come stadio intermedio verso il comunismo, ma anche di ricordare come il movimento di trasformazione che aveva investito questi stati era realmente “popolare” (nel senso usato da Marx nel suo scritto sulla Comune): ovvero prevedeva l’unione di vasti strati non solo operai, ma contadini, lavoratori dei trasporti e dei servizi artigiani, insegnanti, funzionari pubblici etc. In questo stesso modo il PCI utilizzò l’espressione Casa del Popolo (un luogo in cui la stragrande maggioranza della società poteva identificarsi). E questa stessa accezione filtra nei Comitati popolari e di quartiere dei compagni, anche di area autonoma, negli anni ’70…

In sintesi: la categoria di “popolo” è stata usata tantissime volte nella teoria marxista e nella pratica comunista. Ma i nostri teorici di riferimento non hanno perso troppo tempo a definire le categorie che usano, perché: 

sono consapevoli della complessità, della mutevolezza e dell’articolazione del reale; 

gli interessa metterle direttamente al lavoro, renderle qualcosa di “utile”, produrre effetti politici. Di conseguenza troviamo una molteplicità di espressioni per dire la stessa cosa o cose molto simili: masse popolari, masse rivoluzionarie, popolo del lavoro, popolo rivoluzionario, proletariato, semiproletariato, lavoratori, produttori diretti, operai e contadini, classi oppresse, classi sfruttate etc.

Quello che è importante considerare è che tutti hanno posto al centro di questo schieramento la classe operaia in senso stretto, vista da loro come grimaldello, come avanguardia in grado di costruire intorno a sé una rete di alleanze atte a scardinare l’assetto di potere imperialista. Ricostruire così il popolo – come popolo delle esigenze, dei bisogni, dell’istanza democratica – è un processo egemonico importantissimo per minare quell’assetto imperialista che proprio sull’unità e sulla compattezza del “popolo nazionale” fonda il suo potere.  

2. Perché parlare di popolo oggi?

E veniamo a noi, al 2016, all’Italia imperialista, ai nostri bisogni e agli scopi politici che devono essere perseguiti in una fase non certo rivoluzionaria, anzi per tanti aspetti regressiva, ma che comunque resta “fluida”, e che ci rende possibile produrre effetti politici anche dirompenti. 

Cosa intendiamo per popolo? Dalla breve ricostruzione appena fatta si evince che, coerentemente all’impostazione marxista, intendiamo per popolo l’insieme delle classi sociali escluse dal processo di accumulazione all’interno di un determinato territorio. In questo insieme rientrano sia le classi sociali escluse per definizione dal processo di accumulazione (proletariato e sottoproletariato), sia le classi che in passato partecipavano a tale processo ma che ora a causa dell’evoluzione del capitalismo ne sono escluse (gli artigiani, parte della piccola e media borghesia industriale, del commercio e delle professioni). A questo proposito abbiamo compiuto una precisa analisi di classe in Dove sono i nostri. Lì appunto scrivevamo che rifiutavamo di usare nell’analisi scientifica la categoria di “popolo”: 

“[per capire chi siamo] non ci potevamo accontentare di definizioni generiche come “il popolo”, “la gente”, “i cittadini”: per quanto molto diffuse, queste definizioni sono ingannevoli, non ci permettono di comprendere le distinzioni che ci sono nel corpo sociale. Ci fanno credere che abbiamo tutti gli stessi problemi, e che magari i nostri nemici sono solo “la casta” dei politici che rubano… Sono definizioni che non ci dicono le differenze economiche e dunque di potere che vigono all’interno di una società, che non ci spiegano nulla di quello che noi facciamo concretamente e di quello che accade in generale”.

Però poi recuperavamo, in chiave politica, il concetto di popolo quando analizzavamo i diversi segmenti della popolazione italiana (dunque il quadro sociale complessivo) e parlavamo della necessità di unire i vari settori della forza lavoro (“dipendenti”, finti autonomi, lavoratori a nero) con altri settori della popolazione (studenti, disoccupati, pensionati ecc.), per arrivare a costruire un fronte anche numericamente maggioritario. In altri termini anche noi, come Mao, abbiamo definito il popolo soprattutto come l’insieme dei nostri amici

Ora, se riflettiamo sulla nostra esperienza come Ex OPG e in particolare sulla composizione sociale di quelli che partecipano al nostro progetto politico e alle attività, possiamo facilmente notare come siano presenti tutte le figure sociali che possiamo annoverare nel campo dei “nostri amici”. Si tratta senz’altro di un fatto inedito per noi, soprattutto se pensiamo a quello che eravamo anni fa. Se invece spostiamo l’attenzione sui contenuti politici che esprimiamo, notiamo che questi hanno sempre al centro il proletariato e le sue istanze.

Insomma anche noi in questi anni non abbiamo fatto altro che analizzare nei suoi tratti generali la situazione economica delle classi che compongono la società italiana e l’atteggiamento di ognuna di esse nei riguardi della “rivoluzione”. Quindi ci siamo concentrati su un determinato territorio per costruire, nel nostro piccolo, un fronte ampio contro le politiche di austerità e di attacco alle condizioni di lavoro. Un fronte in cui il proletariato ha sempre un ruolo dirigente in quanto numericamente più forte e perché classe in ascesa, ma che vede coinvolti anche quei soggetti in via di proletarizzazione che non assumono, rispetto alle trasformazioni sociali produttive in corso, un atteggiamento necessariamente reazionario, anzi. 

Perché abbiamo iniziato a usare la categoria di popolo? Questa scelta non l’abbiamo fatta noi ma ci è stata imposta dalla realtà. Se infatti ci atteniamo a come si percepiscono i proletari, che restano il nostro soggetto di riferimento, vediamo che non si identificano più in una singola classe, ma in un insieme più ampio composto da tutti quei soggetti che in questi anni si sono “impoveriti” e le cui prospettive sono di costante peggioramento della propria condizione. Basta parlare con qualsiasi proletario per vedere che si sente “uno del popolo”, intendo così un “basso” in cui il lavoratore dipendente sta accanto al lavoratore autonomo a basso reddito e si contrappone a un “alto” fatto di politici, dirigenti sindacali, banchieri, speculatori, privilegiati a vario titolo.  

È una cosa inedita soprattutto per l’Italia dove invece è stata sempre molto forte l’identificazione con una determinata classe e con un determinato soggetto di classe (operai, impiegati, bottegai, professionisti ecc.). Ed era così perché effettivamente le condizioni e le prospettive che avevano questi soggetti e la loro partecipazione alla “vita pubblica” erano estremamente diversi. La stessa organizzazione della produzione favoriva una certa identificazione anche in rapporto al territorio, inteso in senso ristretto. Ora lo spostamento dei siti produttivi all’esterno delle metropoli, l’estrema mobilità che caratterizza le metropoli o meglio le regioni metropolitane, hanno fatto sì che l’identificazione con il proprio lavoro si affievolisse sempre più. L’organizzazione stessa del lavoro con il fenomeno della terziarizzazione dell’industria e la conseguente atomizzazione dei lavoratori, ha determinato un cambio di percezione radicale. 

Si è venuta così ad accentuare anche l’identificazione con un territorio che non è necessariamente ristretto al rione o al quartiere, ma può invece essere molto più ampio, come la città o la regione metropolitana. Il territorio non è semplicemente il luogo dove si va a dormire la sera o dove si va lavorare la mattina o ancora il posto dove si passa il proprio tempo libero, ma è l’insieme di tutto questo. 

Inoltre in questi anni di crisi, la nostra classe, e più in generale tutte le fasce popolari, sono state protagoniste di diverse mobilitazioni, spesso anche di carattere nazionale (jobs act, riforma della scuola e dell’università ecc.). Purtroppo queste mobilitazioni non hanno riportato vittorie, anche a causa della mancanza, della complicità, dell’irrilevanza delle organizzazioni politiche e sindacali che avrebbero potuto e dovuto battersi insieme alle fasce popolati che vedono di giorno in giorno peggiorare le loro condizioni di vita. Questa lunga serie di sconfitte su tante macro-questioni, unita all’impossibilità di identificarsi in un vero soggetto politico di alternativa, hanno determinato molta sfiducia nei confronti della possibilità di cambiare in generale l’orientamento della vita politica e sociale, e molta perplessità e sospetto verso chi propone questo tipo di intervento e chi lancia slogan di carattere ideologico. Rompere questo dispositivo di sfiducia rispetto alle proprie forze (che ha come conseguenza una mancanza di immaginazione e l’adeguamento a quello che c’è), e di sospetto verso chi si caratterizza politicamente (che ha come conseguenza una maggiore difficoltà di radicamento dei compagni), è necessario. 

Si tratta dunque di individuare una modalità di azione che a) contrasti la sfiducia, e ci permetta di riportare delle piccole vittorie ma galvanizzanti e b) ci permetta di radicarci, apparendo come utili, pragmatici, in grado di produrre risultati. E qui il territorio diventa fondamentale. Per quello che è lo stato delle masse e lo stato frammentato del cosiddetto movimento, il territorio è il livello dove è più pensabile delineare un tipo di intervento produttivo. Sul locale si possono avere riscontri fattivi su più livelli (sociale, politico, culturale), si possono condurre battaglie parzialmente o in tutto vittoriose, e si può così riconquistare – anche più velocemente di quello che supponiamo – la fiducia delle masse, nelle loro forze e vero l’organizzazione di avanguardia.    

Questo non vuol dire tralasciare la dimensione del “macro” (mobilitazioni nazionali, guerra, solidarietà internazionalista), vuol dire semmai farla vivere nell’esperienza concreta di ogni giorno, dentro i contesti sociali con i quali si è in rapporto organico, facendo sempre lo sforzo di collegare locale e globale, trovando e ritagliando nel senso comune delle masse le ragioni della protesta. 

Perché è importante utilizzare la categoria di popolo? L’abbiamo visto, perché è così che si percepiscono i proletari, ovvero in quanto parte di un insieme più grande che comprende anche segmenti di altre classi sociali. In generale quelli che dentro la società non stanno bene economicamente, che hanno bisogno di lavorare per mantenere sé e la propria famiglia, si autodefiniscono come “popolo”. Se noi rifiutiamo di utilizzare questa categoria lo faranno altri, e a fare egemonia non saranno i proletari con i loro contenuti e le loro rivendicazioni, ma i reazionari. È quello che abbiamo visto nel dicembre 2013 con il Movimento dei Forconi, che vediamo con i 5 Stelle, con la Lega e fascismi vari. È fondamentale che ci appropriamo di questa categoria e che la decliniamo correttamente. Il punto è proprio quello di non mettersi al carro dei reazionari nella speranza di fare egemonia un giorno (questa fu all’epoca la posizione di Infoaut rispetto ai forconi, questa è quella di chi immagina “alleanze” o entrature con i 5 Stelle), ma di avviare un percorso che, partendo dalla centralità del proletariato, sia poi capace di allargarsi e fare egemonia su quelli che possono essere i nostri amici… 

Anche se i proletari sono il segmento più consistente della società italiana, è necessario fare alleanza con i segmenti di altre classi sociali in via di proletarizzazione a causa della crisi. Nel passato anche recente, pensiamo non solo agli anni ’20 quindi, ma anche agli anni ’70, è stato proprio l’isolamento in cui la grande borghesia ha costretto la classe proletaria a giocare un ruolo determinante nel fermare i processi rivoluzionari in Italia. In Italia storicamente abbiamo sempre avuto un grossa presenza della piccola-media borghesia che ha funzionato come un “tappo” nel contenere le spinte del movimento operaio. Ma ciò è stato possibile perché il grande capitale era in grado di garantire a quei soggetti privilegi e prospettive di miglioramento. Ora che questo non è più possibile, a causa dello stesso sviluppo del capitalismo e per le necessità imposte dalla crisi, che tende a tagliare spese improduttive e a diminuire mediazioni sociali, privilegi, corpi intermedi ecc., dobbiamo assolutamente approfittarne.

Newsletter

Segui gli aggiornamenti sul progetto Me-Ti!

Iscriviti